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Guido Massino

Fuoco inestinguibile
Franz Kafka, Jizchak Löwy e il teatro yiddish polacco

Roma, Bulzoni, 2002, pp.168 + 20 tavv., euro 15,49
ISBN 88-8319-671-6
Negli anni Dieci del Novecento una piccola compagnia di attori yiddish polacchi si esibì a Praga, sul palcoscenico di fortuna del Caffe Savoy. Tra il pubblico era presente uno spettatore d'eccezione, Franz Kafka.

Lo scrittore praghese faceva parte di quei giovani intellettuali ebrei che vedevano nel rozzo, ma vitale, teatro proposto dai polacchi una forma d'espressione autentica della cultura ebraica, non ancora snaturata dal contatto con la cultura e la filosofia europea. Buona parte dei loro correligionari e concittadini rimase invece perplessa e si sentì riconfermata nella convinzione della profonda arretratezza degli ebrei orientali. Infatti questi attori proponevano, su un repertorio popolare e melodrammatico che ricalcava i racconti della tradizione orale ebraica, una recitazione rozza ed energica, inframmezzata da canzoni tradizionali recitate in una sorta di trance estatica, alternando al dialetto yiddish russo-polacco un "tedesco" sgrammaticato e gergale quasi altrettanto incomprensibile al pubblico: arrivavano da un "altrove" completamente estraneo alla concezione del teatro degli israeliti europeizzati della capitale ceca.

In questo saggio la rievocazione del rapporto profondo che si creò tra Kafka e gli attori, in particolare con Jizchak Löwy (Jacques Levi) viene collocata nel contesto della storia del teatro yiddish, del linguaggio, del repertorio e delle tecniche di recitazione che lo rendevano così diverso dal teatro convenzionale. Singoli capitoli sono dedicati a due grandi interpreti yiddisch: il già menzionato Löwy, un attore complesso e difficile, che si dimostrò progressivamente incapace di lavorare nell'ambito di una compagnia comica, e trascorse gli ultimi anni di vita a Varsavia, prima del tragico epilogo della deportazione verso i lager, dimenticato e pressochè indigente a causa di una profonda crisi che aveva inibito quasi completamente le sue capacità creative; e Millie Chissik (Mania Tschissik) attrice di cui Kafka si era, come lui stesso ammetteva, irrazionalmente innamorato (la donna, dai lineamenti forti, sposata e madre di tre figli, era più anziana di lui di una decina d'anni), che emigrò in Inghilterra diventando figura di riferimento per le compagnie yiddish della capitale inglese, maestra di varie generazioni di attori fino alla morte avvenuta nel 1976.

Il panorama che questo libro inizia a svelare è affascinante e poco esplorato: non possiamo che esortare alla pubblicazione di un saggio che affronti più sistematicamente il teatro yiddish, le sue origini, i suoi interpreti, le tecniche e il repertorio, e magari sappia individuare gli scambi intercorsi con il teatro dei "goyim", sia in Europa che in America, per cercare di restituire alla conoscenza collettiva dell'umanità un patrimonio in buona parte disperso dai tragici deliri del nazionalsocialismo e dei suoi alleati.
di Paolo Albonetti


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