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Dario Fo

Il paese dei Mezaràt. I miei primi sette anni (e qualcuno in più)


Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 196, euro 14,00
ISBN 88-07-01626-5
Il paese dei Mezàrat è un piccolo dono che Dario Fo ha voluto fare ai suoi lettori. Un testo raffinato, di profonda e umana delicatezza, denso di emozioni, di storie reali, di racconti fantastici che come tanti tasselli vanno a comporre un meraviglioso mosaico, sintesi del suo pensiero, della sua coscienza civile, delle sue doti artistiche e pittoriche e di un realismo che arriva dritto al cuore di chi legge.

Così, come quando si sfoglia l'album di foto di famiglia e attraverso piccoli fotogrammi si percorre a ritroso la propria esistenza, l'autore sceglie di rivivere, attraverso il ricordo, il periodo spensierato dell'infanzia e della prima giovinezza, con qualche salto all'età della maturità, sostenendo a pieno la teoria di Bettelheim, secondo la quale i primi sette anni della vita di un uomo sono fondamentali per sapere tutto di lui e della sua formazione futura.

La memoria funge da macchina del tempo e in un attimo il lettore è catapultato sulle rive del Lago Maggiore, a S.Giano, che dà i natali all'autore, dove il tempo scorre lento e sonnacchioso, scandito dai rintocchi delle campane e dal fischio rumoroso dei treni in corsa. Saranno proprio i treni a determinare i luoghi dell'infanzia di Fo. Il padre, capostazione nelle Ferrovie dello Stato era, infatti, spesso trasferito da un paese all'altro per lavoro, portandosi dietro tutta la famiglia. I traslochi, ricorda l'autore, erano una vera tortura. I mobili, caricati su un vagone-merci, venivano smontati e, inevitabilmente, la stufa di ghisa capitolava dal treno andando in mille pezzi. Ma non c'era da preoccuparsi, Pa'Fo avrebbe incollato tutto! E' proprio attraverso lo sguardo del bambino che Felice Fo, figura centrale di questa autobiografia, mostra le sembianze di uomo imponente, che destava rispetto e soggezione, una specie di super eroe delle stazioni, col cappello rosso in testa, dritto sulle rotaie, la bandiera in mano sventolata fieramente, al cui cenno tutti i treni si fermavano quasi intimoriti, e che nel cuore della notte faceva superare il confine ai clandestini antifascisti perseguitati, per raggiungere la Svizzera o la Francia.

Tra i luoghi che incorniciano il versante lombardo del Lago Maggiore, come la già citata S.Giano, Pino Tronzano e Porto Valtravaglia, Dario Fo vive anni di forte intensità, di piccole e grandi esperienze, che lo formeranno e anzi saranno incisive per la sua vita futura.

Dal baule dei ricordi saltano fuori le immagini più variegate: i giochi fatti con gli altri coetanei, le sfide, gli scherzi, la scuola di sciabola a cui si iscrive per non essere schernito e che gli procurerà il soprannome di "mutilato"; episodi come il viaggio in Svizzera, cui segue la delusione di non aver trovato i tetti delle case ricoperti di cioccolato; e poi, il primo amore Lucy, salvata dalle pericolose acque del lago; la scoperta della pittura, delle forme, dei colori, i primi ritratti, fino all'Accademia d'Arte di Brera.
Ma ancora più significativi saranno gli incontri con i fabulatori e i narratori di Porto Valtravaglia, ovvero il paese dei Mezaràt, vale a dire dei "mezzo topo", dei pipistrelli (così chiamato perché la maggior parte degli abitanti viveva e lavorava di notte nelle vetrerie) e i viaggi in Lomellina da nonno Bristìn, uno straordinario contadino cantastorie, un vero maestro di "conta": tutti costoro inizieranno Fo all'arte del racconto, un vero vaso di Pandora cui l'attore e scrittore attingerà nel corso del tempo.

L'ultima parte di questo "romanzo di formazione", dai toni brillanti, ironici e a volte grotteschi, perde l'originaria vivacità nel ricordo delle vicende tristi legate alla guerra, alle fughe, ai bombardamenti, all'arte di sopravvivere per non essere sopraffatto. Così il ritmo si fa più incalzante, più affannoso e le parole trasudano ansie e timori.

Ma nell'epilogo ritorna il sereno e anzi Fo racconta con irresistibile comicità la vicenda bizzarra legata ai funerali del padre avvenuti a Luino nel 1987. Era il giorno in cui si svolgevano anche i funerali di Pietro Chiara. La banda del paese seguiva la salma di Pa'Fo, e iniziò ad intonare "Bella Ciao". A un certo punto, tutti quelli che aspettavano la bara di Chiara, che doveva giungere da Varese, per uno strano malinteso iniziarono a seguire il corteo del vecchio ferroviere, lasciando vuota la piazza, dove di lì a poco sarebbe arrivato il feretro dello scrittore.

Tutto il libro è animato da una profonda umiltà e da un velato protagonismo, è il ritratto di una storia personale, fatta di ricordi, di luoghi, di situazioni, di persone, di umori e di sapori. Ma è anche una tela che ritrae i paesaggi di un'epoca, fermandoli nel tempo: nei tratti tenaci o nei colori variopinti ognuno, se guarda attentamente, può ritrovare qualcosa di sé.
di Daniela Piscopo


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