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Aleksandr Sokurov. Eclissi di cinema

A cura di Stefano Francia di Celle, Enrico Ghezzi, Alexei Jankowski

Torino, Associazione Cinema Giovani - Torino Film Festival, 2003, pp. 302, euro 35,00
ISBN 9 788888357102
Frutto della retrospettiva integrale dedicata ad Aleksandr Sokurov dal Torino Film Festival, il catalogo curato da Stefano Francia di Celle, Enrico Ghezzi e Alexei Jankowski è la prima monografia sull'autore che si pubblica in Italia. Nonostante il carattere deliberatamente a-sistematico e provvisorio - denunciato con un misto di onestà e ghezziana sfrontatezza nella postfazione - il volume costituisce un ottimo strumento di lavoro, per la gran mole di informazioni contenute (molto ben curata, tra l'altro, la filmografia) e la validità dei contributi proposti.

Una prima sezione, dedicata alla testimonianze dei collaboratori, aiuta a ricostruire le vicende biografiche e produttive di Sokurov; la seconda parte raccoglie alcuni saggi sull'autore - tutti inediti, per il lettore italiano - e una serie di scritti e testimonianze di cineasti più o meno affini (tra gli altri Artavazd Peleûian, Manoel de Oliveira, Aleksej German, Andrzej Wajda, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Hans-JŸrgen Syberberg, Béla Tarr); in chiusura, è riportata una interessante selezione di scritti dello stesso Sokurov, con testi, diari, appunti e un'ampia intervista realizzata dai tre curatori, che purtroppo le scadenze imposte dal Festival hanno impedito di concludere (viene comunque sviscerata a dovere la parte meno nota della filmografia, dall'esordio La voce solitaria dell'uomo, 1978, fino a Il secondo cerchio, 1990). La retrospettiva torinese ha portato a termine il processo di emancipazione di Sokurov a livello internazionale, marcando un momento significativo in un percorso pieno di ostacoli e difficoltà. Fino al 1985 l'intera produzione del regista - un lungometraggio di finzione e diversi documentari - è rimasta a prendere la polvere sugli scaffali di qualche ufficio, ed è solo a partire dall'anno successivo, con l'avvio della perestrojka e con il V Congresso dei Cineasti, che, sbloccatasi la situazione, i film hanno cominciato a circolare. Nel 1987 Una dolorosa indifferenza - finito di girare dopo due anni di interruzione dovuti al veto alla produzione del 1984 - viene inviato al Festival di Berlino; la storia seguente è fatta di alcuni film, finora poco visti e poco conosciuti (tra i quali I giorni dell'eclisse, 1988; Salva e custodisci, 1989; Il secondo cerchio; Pietra, 1992 e Pagine sommesse, 1993) fino al consenso generale ricevuto da Madre e figlio (1997), che schiude a Sokurov le porte dei festival e del consenso critico (in Italia è stata la rivista "Filmcritica" la prima e più convinta sostenitrice dell'autore). Sokurov tende a organizzare la propria produzione artistica attorno a grossi progetti: tra quelli in corso di realizzazione, una trilogia sugli affetti familiari (i già realizzati Madre e figlio e Padre e figlio, e uno ancora da fare sui rapporti fra un fratello e una sorella) e una quadrilogia sul potere (Moloch su Hitler, Toro su Lenin e altri due film in previsione: Sole sull'imperatore Hirohito e Faust). Ma il più macroscopico di questi progetti è costituito dalla realizzazione di elegie, che prosegue ininterrotta ormai da oltre quindici anni (a partire da Elegia, del 1986). Il ricorso ripetuto ad un simile termine - di origine letteraria e del tutto inutilizzato tanto dai cineasti quanto dagli studiosi di cinema - merita qualche riflessione. Sokurov intende l'elegia come "un canto di lode, canto in ricordo di qualcosa che è scomparso, una messa in onore di qualcuno che non c'è più", una riflessione "su qualcosa che un tempo era di grande importanza - una persona, un fenomeno, un periodo storico" (p. 238). Il genere elegiaco quindi non si definisce in base alla sua configurazione esteriore (documentario o finzione, lungometraggio o cortometraggio, pellicola o video), ma in relazione al significato originario classico di lamentazione funebre. Se si considera l'elegia come la libera rielaborazione per immagini e suoni di un'esperienza di perdita vissuta nel presente, si può affermare che il nucleo fondante dell'intero cinema di Sokurov è elegiaco. Quando lo sguardo che di tale esperienza si fa carico si rivolge verso la sfera del privato, viene evitato ogni riferimento personale, per meglio ricercare in un movimento di affetti quanto di generale vi si può trovare: le persone in fin di vita filmate in Elegia dalla Russia (1992) sono autentiche ma, allo stesso tempo, private della loro identità e quindi, intimità: non consegnano allo spettatore la loro agonia, ma una metafisica dell'agonia. Nel caso opposto, quando lo sguardo si incarica di interrogare l'ambito pubblico o politico, l'operazione va in direzione opposta e l'interesse cade sul soggetto in sé: il presidente lituano Landsbergis che suona il piano nel suo ufficio in Elegia semplice (1990), Eltsin davanti alle immagini televisive in Elegia sovietica (1989), fino all'atmosfera da kammerspiel grottesco in cui sono calati Hitler e Lenin nei due film a loro ispirati. Per Sokurov, il potere è frutto di un drammatico e paradossale fraintendimento: "Che cos'è un imperatore? Non è altro che un uomo chiamato così, nient'altro che un'ombra. Che cosa si definisce imperiale? Qualcosa di inventato, di artificiale. La grandezza che non esiste. [·] Magari abiti in un bell'appartamento, in un edificio magnifico, milioni di persone conoscono il tuo nome, sei ricco, e poi un bel momento il tuo cuore cessa semplicemente di battere. E finisce tutto. È la forza banale della morte, la forza banale della fine della vita umana·" (p. 263). Tutto ciò che viene dal passato (la biografia degli individui, delle nazioni e degli imperatori) viene svuotato della consistenza che gli è propria, per ricercarvi nuove qualità. Basta riflettere sul trattamento riservato da Sokurov alle immagini di repertorio, sottoposte a principi di organizzazione formale sempre orientati a metterne in luce aspetti inattesi. Esse entrano nei film di finzione (Una dolorosa indifferenza, con filmati della prima guerra mondiale sottoposti ad anamorfosi; Moloch, con le immagini di cinegiornale osservate da Hitler e quelle che irrompono improvvisamente sullo schermo durante la scena in camera da letto con Eva Braun), oppure, quando dovrebbero documentare qualcosa, cessano di essere significative, o lo sono a contrario, come l'interminabile galleria di "figurine" della nomenclatura in Elegia sovietica o le immagini del fŸhrer in Sonata a Hitler (1979-89). Il tempo della Storia viene ricondotto, con un movimento uguale e contrario a quello del film storico tradizionalmente inteso, al tempo fenomenico degli eventi insignificanti, quel tempo che Bazin scorgeva al cinema sotto forma di immagini della durata e che Tarkovskij cercava di comporre in scultura nei suoi film. Degno erede dell'autore di Andrej Roublev, anche Sokurov è un regista del tempo, che si assegna uno dei compiti più complessi del cinema moderno: recuperare le istanze più profonde del visibile: "la gente di solito ha un'idea rudimentale e ipersemplificata del visibile, di quel che vediamo. La natura ci ha dotato della capacità di vedere. Perciò pensiamo che tutto ciò che appartiene al mondo del visibile sia e debba essere immediatamente accessibile, e che godersi questo mondo visibile non esiga alcuno sforzo" (p. 237). Un'operazione che, come ci hanno insegnato non solo Tarkovskij, ma anche Deleuze e tanti autori e teorici del cinema moderno, richiede tempo: e il cinema di Sokurov, come lo sguardo invisibile che accompagna lo spettatore durante l'intera durata di Arca russa, è un occhio che si prende tutto il tempo necessario per interrogare la storia, l'arte e la cultura nella convinzione che il cinema sia ancora capace di produrre spiegazioni della nostra esperienza.

di Federico Pierotti


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