È un piccolo libro prezioso questo volume antologico che riordina, con criterio cronologico, gli scritti dei più importanti esegeti di Totò e della sua arte. Si legge dun fiato, ed è una lente dingrandimento straordinaria perché mette in luce, quasi in rilievo, la storia della cultura novecentesca italiana. Mentre resta intatto, al termine della lettura, lenigma legato allarte del comico napoletano che scrittori, registi, critici e studiosi si affannano a svelare e spiegare, appare nettissima, in controluce, la storia culturale del nostro paese dagli anni Trenta ai Novanta.
Allinizio del percorso ci sono voci isolate che si levano per riconoscere un talento misconosciuto cresciuto nei teatrini dellavanspettacolo e del varietà. Lo stile formalmente levigato della prosa darte pesca gli aggettivi più giusti per descrivere un Totò amato in quanto riflesso delle avanguardie espunte dagli orizzonti angusti del regime. Nel Totò teatrale Barbaro, Ramperti, Franci e Zavattini vedono per primi ciò che in seguito verrà nascosto dietro la pesante censura intellettuale posta sui film di Totò e sullimmoralità dei suoi personaggi: elogiano la marionetta, la convulsione danzante, la schizofrenica scissione fra la maschera e la persona (fondamentale in questo senso anche il contributo di Orio Vergani del 48), la vertigine, la creazione poetica, in una parola il “moderno” definito da Zavattini. Dagli anni cinquanta con la “Totòmania” e le “Totoate” viene calato il macigno del giudizio, responsabile di un paio di decenni di miopia critica: Totò appare un grande attore ma la sua arte è sepolta sotto il cattivo gusto del cinema comico italiano. Sintomaticamente nellantologia di Caldiron manca allappello quasi un decennio: fra larticolo di Giuseppe Marotta (“LEuropeo”, 1956) e la professione di fede di Mario Soldati (stessa testata, 1964), il silenzio.
Si torna a parlarne dopo la morte, che coincide con la stagione della contestazione. Mentre le firme più prestigiose dei giornali nei loro “coccodrilli” continuano a prendere gli esordi teatrali ad esempio della genialità di Totò o rievocano gli aneddoti legati alla conturbante dissociazione fra lattore e luomo, nel 67 le opinioni “contro” di Ennio Flaiano, che considera Totò il rappresentante della zona metafisica inesplorata della commedia italiana, e soprattutto di Goffredo Fofi, inaugurano la stagione della revisione critica: in un articolo pubblicato su “Ombre rosse”, Fofi snocciola tutti i titoli più vieti della sua filmografia e rivendica al loro interno la presenza del Totò più vero e grande. “Con Totò la marionetta ha vinto. Che ci frega dunque che i registi di successo non siano riusciti a straziarla nelle direzioni loro congeniali (…) se Totò è esploso comunque in tanti e ‘brutti film pieni di brani da antologia, di divertimento puro, di volgarità rivendicata, di spiritata bizzarria, di scatenamento aggressivo e prepotente, di vitalità famelica e tartassata?”.
Gli anni Settanta appaiono più mesti e soporosi, con Pasolini che ribadisce lavversione per i film volgarissimi di Totò e i cineclub sui quali le stesse pellicole marciano trionfalmente, travolgendo lordinaria programmazione di Bergman e Antonioni. La televisione è inondata da film per decenni considerati spazzatura? si apra il dibattito su Totò plebeo o piccolo-borghese…
Negli anni Ottanta fioriscono gli studi. Lantologia di Caldiron li apre con il Fellini di Fare un film, cioè con la quadratura del cerchio: “Come tutti i grandi clown, Totò incarnava una contestazione totale, e la scoperta più commovente e anche confortante era riconoscere immediatamente in lui (…) la storia e i caratteri degli italiani”. Segue la sistemazione storica di Vittorio Spinazzola, che individua le caratterizzazioni più icastiche nei film del periodo compreso fra il ‘47 e il 56 (le famose “Totoate”), chiudono il decennio le indimenticabili pagine di Claudio Meldolesi sulla “vista di memoria” dellattore e le dissertazioni filosofiche di Maurizio Grande sulla supermarionetta, la deriva dellidentità e la maschera della prestazione. Gli anni Novanta, fertili quanto eterogenei, spaziano dalla scoperta del futurismo partnenopeo introiettato da Totò negli anni della formazione (Alberto Anile) alla disamina linguistica dei suoi funambolismi verbali (Tullio De Mauro, Fabio Rossi).
Mentre legge, il lettore del Duemila pensa a Benigni (quanto somiglia a Totò nellestro, quanto ne tradisce la parabola nelle ambizioni autoriali) e alle nuove tecnologie: con il digitale a ciascuno il suo Totò, riassemblato in antologie personalizzabili, trasportabili e trasferibili su infiniti supporti. Piacerà a Fofi?
Cristina Jandelli
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