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Il Cavaliere e la dama

A cura di Franco Arato

Venezia, Marsilio, 2003, pp. 245, euro 13,50
ISBN 88 - 317 - 8357 - 2
La nuova edizione nazionale delle opere di Goldoni si arricchisce di un titolo importante: Il cavaliere e la dama. La commedia, particolarmente amata dal suo autore, [essa] andò in scena per la prima volta a Verona nell'estate del 1749, «anno cruciale della riforma» come sottolinea il curatore di questa edizione [Marsilio]. Proprio le pubblicazioni che di questo testo si sono succedute, ancora in vita il commediografo, sono importanti non solo per le variazioni al dettato di personaggi e battute quanto, e soprattutto, per la storia della riforma goldoniana. Dopo le prime due stampe veneziane per i tipi del Bettinelli (1752 e 1753), lo stesso drammaturgo, in rotta col capocomico Medebach, viene a Firenze e con l'editore Paperini decide di mettere sul mercato una sua edizione, sòrta di polemica e autorale ne varietur, della propria opera. Il dato spettacolare, tuttavia, travalica quello editoriale. Infatti, tra la prima veronese de Il cavaliere e la dama e l'edizione fiorentina avviene qualcosa di importante. La messinscena del 1749 vedeva ancora la presenza di maschere, nonostante Goldoni stesse andando velocemente verso il manifesto della riforma che è la commedia Il teatro comico (Venezia, 1750). Nell'edizione fiorentina de Il cavaliere e la dama compare uno ampio elogio di Pietro Pertici, attore, cantante (un primo buffo), impresario, direttore degli spettacoli e concertatore (un regista ante litteram). Goldoni si compiace di sapere che «in Firenze vi erano le commedie mie rappresentate senza le maschere» e Pertici è per lui «il più bravo attore del Mondo». Firenze pare essere, dunque, quasi un laboratorio primigenio e avanzato (si pensi anche a certe risciacquature in Arno perseguite da Goldoni in questi anni) dell'incombente riforma che prevedeva, tra l'altro, che la commedia fosse mondata dei lazzi 'osceni' delle maschere.

Una lode quella che Goldoni scrive ne L'autore a chi legge che sembra un meritato tributo a chi ha dato vita al suo 'sogno teatrale', quello di vedere cioè un teatro affrancato dai modi esangui della commedia dell'Arte. Forse dietro gli elogi fin troppo calorosi si nascondeva anche un interesse di bottega. Pertici era molto famoso, conosciuto e ammirato da personaggi come Horace Walpole (scrittore e ricco aristocratico inglese), David Garrick (il grande attore shakespeariano), Burney (reverendo musicofilo), Sir Horace Mann (ambasciatore britannico alla corte medicea prima e lorenese poi). Pertici aveva girato i teatri di mezza Italia e si era distinto anche in Europa, soprattutto a Londra. Il teatro fiorentino del Cocomero, dove negli anni de Il cavaliere e la dama Pertici recitava e faceva l'impresario, era diventato uno dei templi della commedia e dell'opera buffa, tanto che è citato anche in una di queste a carattere metateatrale di grande successo come L'Orazio (libretto di Antonio Palomba). Insomma, un attore che poteva anche contribuire alla fortuna di un autore e di un editore. L'elogio, dunque, potrebbe tingersi di una qualche tinta adulatoria e contenere meno verità di quello che il primo livello di lettura lascerebbe intendere.

Pertici era un attore-cantante oramai così autorevole che aveva cambiato i nomi dei personaggi in altri testi di Goldoni, riconducendoli a un'onomastica autobiografica tratta dai suoi personaggi più frequentati come buffo del teatro comico musicale (Pancrazio e Pandolfo soprattutto), come le ricerche di Anna Scannapieco hanno dimostrato (vd. la sua introduzione a Il Padre di famiglia di Goldoni, sempre Marsilio). Franco Arato, sia nell'introduzione, sia negli apparati, rileva che «già col passaggio dall'edizione Bettinelli del 1752 ... alla fiorentina Paperini del 1753 ... si apprezza un primo cauto congedo da certi modi dell'Arte» (Introduzione, p. 28), cioè dai frizzi e lazzi tipici delle maschere. Tuttavia è forse ancora da rilevare che in questo come in altri volumi di questa nuova edizione nazionale non si sottolinea abbastanza l'importanza dell'attore nelle vita e negli sviluppi di un testo, in favore di una pur ricca ricostruzione del 'contesto' e della filiera di contaminazioni che spesso sovrintendono o precedono una trama. Certo un dovere istituzionale di un'edizione nazionale che, però, a tratti sembra soverchiare un più ampio discorso-ragionamento 'teatrale'.

Apprezzabile, rispetto a molta letteratura critica su Goldoni, la scarsa presenza di anacronistici 'psicologismi' sui personaggi, presentati invece, più che altrove, nella loro più vera natura di 'entità' teatrali. Il soggetto si presenta, come in altre commedie (si pensi a La cameriera brillante qui recensita), con tratti sensibilmente manichei fatti di forti chiaroscuri sui cui sbalzano in rilievo, a volte paracaricaturale, i personaggi, quasi a voler rimpiazzare – attraverso l'esasperazione del carattere tesa a suscitare una reazione empatica nello spettatore – il progressivo abbandono dei tipi. Il curatore presenta, inoltre, una ricostruzione, ricca e documentata, del 'problema' dei cicisbei, protagonisti incipiatri e odiosi del mondo e della vita di dame dalla natura bizzosa oggi definibile come psicolabile. Se certo vi è un intento illuministico-pedagogico da parte di Goldoni, forse sarebbe anche da rilevare, al di là della ricostruzione di Arato, lo specifico [intrinsecamente] teatrale di queste figure contemporanee che, non a caso, si trovano anche in opere buffe di origine napoletana di molto precedenti al [questo] testo di Goldoni. Il cicisbeo è un personaggio della vita di società, delle conversazioni (cioè dei salotti) che, ridicolo, intrigante e patetico di per sé, era 'geneticamente' destinato ad arricchire le macchine drammaturgiche come lo furono i notai, gli avvocati o i soldati ubriaconi e spacconi.

Gianni Cicali


Copertina del volume

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