Una giornata particolare

di Alessandro Tinterri

Data di pubblicazione su web 12/06/2024

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Sabato 1° giugno. 

Mattino. Partenza di buon'ora da Livorno per Gorgona, l'isola più piccola dell'arcipelago toscano, parco naturale e sede di una casa di reclusione maschile, che attualmente ospita settantotto detenuti. Il traghetto La Superba (immatricolato a Genova) è pieno di escursionisti e di un nutrito gruppo di magistrati, avvocati, addetti ai lavori e teatranti direttamente coinvolti o interessati allo spettacolo del pomeriggio. Il 15 maggio (fa fede lo scontrino Feltrinelli) avevo acquistato il libro di Daria Bignardi Ogni prigione è un'isola (Milano, Mondadori, 2024) e avevo già programmato con il regista Gianfranco Pedullà che sarei andato a vedere la sua Tempesta, quando al telefono aggiunse che, se la cosa poteva interessarmi, la mattina ci sarebbe stata la presentazione del libro della Bignardi, di cui fino a quel momento avevo letto un terzo. Mi è sembrata subito una felice coincidenza. Avevo acquistato il libro incuriosito dal titolo, che mi ricordava John Donne, e da un'intervista alla stessa Bignardi, in cui dichiarava di fare volontariato in carcere da trent'anni e più. 

Approdati sull'isola dopo una tranquilla traversata, ci siamo rifocillati allo spaccio, gestito dagli agenti di custodia e rifornito di prodotti locali, frutto delle coltivazioni dei detenuti, in collaborazione con gli agenti (uno dei quali giustamente vantava la qualità della sua pizza al taglio e della “schiaccia”). Quindi ci siamo avviati alla fortezza medicea sovrastante per la presentazione, che si è svolta in una sala dall'ampia vetrata affacciata sul porto. Tempo splendido e folta presenza di pubblico. Già dai primi discorsi di benvenuto si avverte una partecipazione sentita da parte dei responsabili dell'organizzazione. Esauriti i preliminari, Daria Bignardi racconta che da bambina la colpì apprendere che nel carcere della sua Ferrara, in via Frangipane, accanto a casa sua, era stato incarcerato anche Enrico Bassani. Era stato per lei il primo segnale di una curiosità destinata a trasformarsi col tempo in una frequentazione sempre più solidale e consapevole, sino ad abitare a Milano in via San Vittore, non lontano dal carcere, dove diversi anni dopo sarebbe andata con la figlia neonata, per farla conoscere al nonno, Adriano Sofri, colà recluso. Per la bambina quello del parlatorio divenne un contesto familiare, che ne accompagnava la crescita, per il fratellino più grande un motivo di orgoglio. All'epoca la Bignardi era già una “settantotto” – numero del permesso d'ingresso dei volontari in carcere – ed è lei la prima a parlare di quel “male di carcere” (una sorta di “mal d'Africa”) di cui soffrono quanti con il carcere hanno stabilito un rapporto complesso, non esente dalla sofferenza presente nell'etimologia del termine “nostalgia”, che racchiude in sé l'idea del ritorno. Un concetto confermato dagli interventi che seguono, quando Daria Bignardi prende in mano la situazione e la presentazione decolla: invita i presenti al microfono e, con quella scioltezza che le proviene dall'esperienza radiofonica e televisiva, intervista il pubblico inducendolo a dare la propria testimonianza, incalzando sia gli addetti ai lavori sia i detenuti che di lì a qualche ora si sarebbero trasformati in attori. 

L'incontro cui assistiamo non è un fatto isolato, ma fa parte di una serie di iniziative frutto del lavoro di un'appassionata coordinatrice (prossima con suo rammarico alla fine del mandato) concordate con il direttore che, tra gli applausi generali, promette di esaminare la possibilità di consentire gli incontri affettivi dei detenuti con i parenti più stretti. Con il passare del microfono di mano in mano emerge la realtà di un luogo problematico, in quanto difficile e costoso da raggiungere per le famiglie, ma allo stesso tempo privilegiato, di qui la gratitudine verso per quanti vi arrivano sia pure per una breve visita; ma anche la dichiarazione di chi, venuto da un carcere ristretto del Piemonte per rimanere, ricorda la meraviglia di quel cielo azzurro, la quasi normalità di una giornata scandita dal lavoro. E la cura del piccolo borgo si percepisce nell'ordine del luogo, nelle facciate delle case dipinte, nell'acciottolato delle strade ben tenute. Non un luogo di transito, ma una piccola “patria”, cui si accede a richiesta, consapevoli della fortuna ottenuta ad approdare in un porto sicuro dove sul muro della terrazza campeggia, scritto in azzurro, l'articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». 

Oltre ai prodotti del lavoro agricolo, sino a qualche anno fa si praticava anche l'allevamento di bovini, ovini, con i prodotti caseari derivati: un'attività formativa, che occupava una quindicina di addetti, con tutti i benefici connessi per gli animali al pascolo e per l'alimentazione degli isolani, data la qualità della macellazione. Purtroppo, un divieto venuto dall'alto, motivato da un malinteso quanto superficiale animalismo, ha interrotto la buona pratica. 

Colpisce l'osservazione di Paolo/Prospero che non basta condurre una vita normale a garantire l'immunità dall'esperienza carceraria, basta un incidente stradale o anche un errore giudiziario ad aprirti inaspettatamente le porte del carcere. Bignardi ci informa: «Tra il 1991 e il 2022 in Italia gli errori giudiziari accertati e le ingiuste detenzioni sono stati in tutto 30.770, quasi mille all'anno. Oltre all'ingiustizia, un sacco di soldi a carico dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti: 932 milioni e 937 mila euro. Quasi trenta milioni all'anno» (p. 71). Tutti, operatori e detenuti, concordano che anziché dismettere quelle esistenti, ci dovrebbero essere più isole-carcere. Non un esperimento felice, dunque, quanto un modello, una risposta alle sanzioni europee per il sovraffollamento delle carceri italiane. Tutti o quasi convengono sull'inutilità del carcere punitivo o, peggio, vendicativo. Aleggia l'allarme per un clima legislativo propenso piuttosto a quest'ultima opzione. Bignardi tende ad attribuire ai contesti familiari e ai condizionamenti ambientali un'influenza decisiva nelle scelte individuali e cita in proposito Adriano Sofri, dieci anni di galera e dieci ai domiciliari, per una sentenza quanto meno discutibile (vedi C. Ginzburg, Il giudice e lo storico: considerazioni in margine al processo Sofri, Torino, Einaudi, 1991): «“Dai l'impressione” dice il mio ex suocero Adriano quando parlo così “di non tenere alcun conto della questione centrale della criminalità – o del “male” – che oppone la convinzione che il delitto sia frutto della società alla constatazione che uno stesso contesto porti alcuni a delinquere e altri a rifiutarlo. Dunque che il male si scelga. […] Adriano ha quasi sempre ragione, ce l'avrà anche su questo» (p. 57).

Un momento dello spettacolo

Pomeriggio. Dopo la pausa pranzo sulla terrazza ventilata accanto allo spaccio, un rullare di tamburo annuncia l'approssimarsi dello spettacolo. Gli spettatori si avviano alla spiaggia, dove ad attenderli ci sono gli attori: è il momento del prologo, grazie a un opportuno impianto di amplificazione le musiche di Francesco Giorgi, mixate con lo sciabordio delle onde, concorrono a creare l'atmosfera, mentre le voci registrate contrastano l'inevitabile dispersione delle parole all'aperto (gli attori non sono microfonati con il classico archetto). Anni fa al Salone del libro di Torino venne presentato un rapporto sul teatro in carcere e mi colpì il numero delle compagnie coinvolte. Il sito del Ministero della Giustizia ne censisce ottantatré sparse in tutta Italia, registrando un fenomeno crescente dagli anni Ottanta del secolo scorso, a partire dall'esperienza fondativa del carcere di Volterra di Armando Punzo, per arrivare a Fabio Cavalli, da anni insediato al carcere romano di Rebibbia, la cui esperienza, grazie al film dei fratelli Taviani Cesare deve morire (Orso d'oro alla Berlinale), ha riscosso una risonanza internazionale. Sempre nel sito si leggono parole molto chiare sul senso di questa «pratica formativa non tradizionale» e sulle sue finalità: «l'esperienza del gruppo teatrale consente, infatti, di sperimentare ruoli e dinamiche diversi da quelli propri della detenzione, sostituendo i meccanismi tradizionali basati sulla forza, sul controllo e sulla sfida con quelli legati alla collaborazione, allo scambio e alla condivisione». Ma anche rispetto agli esempi appena citati, Una tempesta da Shakespeare, drammaturgia e regia di Gianfranco Pedullà con la Compagnia Teatro popolare d'arte e i detenuti del carcere della Gorgona (Valerio Andreucci, Daniele Bergero, Piero Bergero, Marius Chiriac, Calogero Delia, Pietro Figus, Isuf Fisti, Zef Ndreca, Paolo Ottino, Emilio Tropea, Chiara Migliorini, Hammami Ghassen, Jezim Kuka, Michael Adjei, Anita Donzellotti), è uno spettacolo particolare, non solo per lo straordinario scenario marino, ma anche per gli interpreti che, senza atteggiarsi a un inesistente professionismo teatrale, sanno essere se stessi con un'autenticità che si converte in emozione. Si realizza in questo modo quel teatro necessario teorizzato da Peter Brook, un'esperienza che si incide nella memoria e nella coscienza dello spettatore. 

Terzo episodio della trilogia del Teatro del mare, questo il titolo del progetto, inaugurato nel 2020 da Ulisse (premiato quale migliore spettacolo di teatro sociale dall'Associazione Nazionale Critici di Teatro, dalla rivista «Catarsi» e da Teatri della diversità), seguito nel 2022 da Metamorfosi da Ovidio, l'attuale Tempesta esplora il rapporto fra uomo e natura. Abituati ormai a una dimensione minimalista, spesso dettata da prosaici condizionamenti economici, è una festa vedere una compagnia che non conosce limiti e può permettersi di duplicare Calibano e moltiplicare l'etereo spirito di Ariel in un corteo di “Arieli” (se ne contano almeno sette, guidati da Chiara Migliorini); tutte scelte non tanto di opportunità, bensì corroborate da precise intenzioni registiche, tese a una coralità d'impianto, che non trascura l'essenzialità. Tali sono i costumi, essenziali e colorati, di Veronica Di Pietrantonio, non meno delle componenti scenografiche ideate da Giovanna Mastantuoni, sino ad addobbare la spiaggia nel suggestivo quadro finale. 

Per la sua riduzione Pedullà adotta parzialmente la celebre traduzione d'autore di Eduardo De Filippo, che nel suo rifarsi all'antico napoletano aggiunge qualcosa di più del semplice colore linguistico alla dimensione favolistica del testo scespiriano, risuonando in bocca agli attori come un valore di aggiunta autenticità, senza detrimento della qualità letteraria, anzi. 

Terminato il prologo, il corteo degli spettatori risale sino allo spiazzo antistante la casa di Prospero, dove trova ad accoglierlo un batterista, che scandisce le battute di Calibano, la divertente coppia di Stefano e Trinculo si scambia battute salaci, e l'azione si dipana su più piani, sul prato e sul terrazzo di una casetta sovrastante, in un moltiplicarsi di soluzioni spaziali, assecondate dalla topografia dell'abitato. Il tutto in un panorama da togliere il fiato per la bellezza, che induce a soffermare lo sguardo alternativamente ora sull'interno del monte, ora sul mare. 

Per il terzo momento, il finale con le nozze di Miranda e Ferdinando, si ritorna tutti sulla spiaggia di fronte all'orizzonte aperto del mare dove, terminato lo spettacolo, attori e spettatori si scambiano emozioni.

Un momento dello spettacolo 

La tempesta è l'addio alle scene di Shakespeare e la bacchetta magica che Prospero spezza nel finale ne è la metafora, un rito di passaggio che nelle intenzioni del regista trasforma l'addio in una rinascita: «Abbiamo realizzato uno spettacolo sui miti del Mediterraneo, in forma itinerante nell'isola che, così, ha assunto essa stessa una forma simbolica, divenendo un grande palcoscenico l'isola è il teatro nel quale si ricrea una vita nuova fondata sulla riconciliazione con il proprio passato. L'isola è lo spazio neutro dove la vita può rifiorire su basi nuove, il luogo dove la giovane Miranda si innamora del giovane Ferdinando e sposandolo crea futuro. La nostra isola è il luogo degli spiriti degli Arieli, il luogo dell'aria aperta, il luogo della ripartenza e di nuove libertà, il luogo della riappacificazione con se stessi e con gli altri. L'isola è il regno dei suoni e della musica, della parola riabilitata nella forma e nei contenuti. L'isola è tragica e comica, come tutti noi, che ci sforziamo di scomporre e ricomporre le tempeste che la vita ci obbliga ad attraversare. L'isola è un grande teatro». 

Tante volte mi è capitato di vedere caricare le scene degli spettacoli su un tir, ma su un battello mai e alla fine mi inoltro sul molo ancora deserto e non resisto alla curiosità di assistere all'imbarco di tutto quanto è stato utilizzato nello spettacolo, versione moderna della barca dei comici di goldoniana memoria. A Daria Bignardi non chiedo una dedica, ma di scrivere sul frontespizio del suo libro (sulla via del ritorno il mare agitato non m'impedisce di terminarne la lettura) il luogo e la data di questa giornata particolare.