Salome, nella traduzione
musicale di Richard Strauss, è un personaggio
inafferrabile: chiunque tenti di coglierne lessenza, inevitabilmente la perde.
È questo ciò che sembra voler trasmettere la regia approntata da Barrie Kosky, autore a Francoforte di una messinscena che approda ora in
Italia grazie al Teatro dellOpera di Roma. Archetipo di perversione necrofila
e quintessenza di grovigli psicanalitici adolescenziali (Freud aveva appena mandato alle stampe i Tre saggi sulla teoria sessuale), apoteosi del
decorativismo estetizzante fin de siècle
con le antenne però rivolte al nascente espressionismo, Salome parrebbe unopera incasellabile per categorie: ma Kosky
spariglia la pruderie dei luoghi
comuni (il confine tra amore e devianza è labilissimo, suggerisce
implicitamente il suo spettacolo), scompagina ogni consolidata certezza
stilistica (di kitsch qui non cè
traccia, semmai si riaffaccia quella componente parodistico-grottesca che,
presente nel testo di Oscar Wilde, Strauss aveva poi sfumato) e si
limita a lanciare segnali, che starà poi a ogni spettatore ricostruire in base
alla propria sensibilità.
Una scatola scenica buia e
vuota a realizzarla è Katrin Lea Tag diventa dunque la cornice per un dramma che eravamo abituati
a veder saturo di colori e immagini. Tutti restano racchiusi nelle tenebre,
comprese ovviamente quelle dellinconscio, e a rendere di volta in volta
visibili i personaggi cè solo un semovente “occhio di bue” calibrato con
millimetrico virtuosismo dal light designer Joachim Klein. In questo
nulla disvelato a intermittenze da un cono di luce (quella luna di cui si parla
fin dalle prime battute dellopera e che qui, materializzandosi in unica fonte
luminosa, diventa coprotagonista) agiscono Salome e Jochanaan, Erode e
Erodiade, Narraboth e il paggio, mentre i comprimari restano mere voci avvolte
dalloscurità; ed è un percorso drammaturgico del tutto congruo per unopera
dove i personaggi spesso vengono visti o uditi dagli altri prima che
arrivino in scena: Narraboth, nel dramma di Wilde, osserva da lontano Salome
quando ancora non è apparsa agli spettatori, così come Salome inizialmente “vede”
Jochanaan solo attraverso la sua voce. Soltanto in un secondo momento potrà
scorgerlo fisicamente.
Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni Certo, si tratta di
unoperazione registica non indenne da azzardi: sono dietro langolo tanto un
possibile compiacimento tecnico tale oltranzistico andare per sottrazione
rischia una sorta dipertrofia alla rovescia quanto unimpaginazione non
sempre intelligibile del racconto (il suicidio di Narraboth viene risolto
attraverso il suo definitivo inghiottimento nelloscurità). Kosky tali pericoli
sa aggirarli, grazie a una visualità plastica (più che sui corpi, lavora sui
dettagli che il cono di luce enfatizza: i volti cerei, il frullar di mani
)
quasi mai in collisione con la musica. Fa eccezione linnesto di un prologo a
sipario inizialmente abbassato, prima dellattacco orchestrale, che diffonde in
platea rumori metallici simili a un battito dali (anticipazione del sinistro
volatile che popola gli incubi di Erode?): una trovata che vanifica lefficacia
di quel sibilante clarinetto con cui si apre la partitura e che, per Strauss,
doveva catapultare lascoltatore in medias res.
Quello stesso prologo ha però
il vantaggio di mostrarci, mentre il sipario si alza e i suoni registrati
continuano, la protagonista in una prima, inopinata apparizione. Circonfusa da
un copricapo piumato in stile diva del muto (il cinema era agli albori quando
Strauss componeva), Salome compare nel primo dei molti, differentissimi costumi
firmati anchessi dalla Tag che indosserà nel corso dellopera, atti a
riassumere la sua natura tanto più cangiante quanto più ineffabile. Sono, in
fondo, gli ideali succedanei di quei sette veli che non vedremo, giacché una
regia come quella di Kosky del momento oleografico delle danze non sa cosa
farsene; eppure è proprio la danza dei sette veli uno dei passaggi più
memorabili dello spettacolo: risolta in un momento solipsistico allucinato e
masturbatorio, con la protagonista seduta a gambe spalancate una sconcia
bambola rotta che estrae dal proprio sesso quelloggetto di desiderio che
erano i capelli di Jochanaan, trasformati in uninterminabile matassa di ciocche
mostruosamente proliferanti mentre la musica continua.
Pure il modo con cui è
realizzato lepilogo risponde a questestetica solipstica e claustrofobica: la
testa di Jochanaan viene servita a Salome non su un bacile dargento, ma fatta
pendere da un gancio di macelleria; e la principessina, anziché baciare quelle
labbra senza vita, sceglierà una necrofilia e unincorporazione ancor più
assolute, calcando il capo mozzato sulla propria testa, come fosse un
sanguinolento mascherone carnevalizio. Estremo colpo di coda di una regia che
per tutti i cento minuti dello spettacolo ha arpeggiato con maestria sulle
corde del grottesco più stridulo, compreso quello in chiave satirica:
dallaffettata borghesizzazione di Erodiade a un Erode in camicia nera. Come a
dire che dal tetrarca al gerarca il passo è breve.
Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni
Se Kosky ha potuto contare su
un cast di cantanti che sono pure
duttilissimi attori, allapparenza non instaura una dialettica altrettanto
fertile con il concertatore. Ma si tratta, appunto, dimpressione a prima
vista. Giacché la direzione di Marc Albrecht colori accesi, stacchi
rapidi soltanto a una lettura superficiale appare ossimorica rispetto allo
spettacolo buio, e allazione solo “di testa”, messi in atto dal regista. Nei
fatti, invece, lopulenza ritmico-timbrica della lettura di Albrecht è il miglior
contraltare per una regia che, senza un vivido supporto musicale, poteva
impantanarsi nella lugubre monotonia. Né appare calzante parlare di messinscena
“innovativa” a fronte duna direzione “tradizionale”: giacché se Albrecht
cerca, e trova, i colori sgargianti della più succulenta tradizione (da Krauss e Karajan giù fino a Thielemann),
lo fa allinterno di tempi meno estenuati e più mossi di quelli classici, in
linea con uno Strauss meno decadente-tardoromantico e più consapevolmente
novecentesco. Ma soprattutto ed è ciò che più conta lo fa con una maestria
tecnica che galvanizza gli strumentisti. Lorchestra dellOpera di Roma questa
volta ha superato sé stessa, per bellezza e ricchezza di suono.
Analogamente, un soprano come Lise Lindstrom bella donna con alcuni lustri di palcoscenico alle
spalle, dunque lontana dalladolescente concepita da Wilde potrebbe risultare
anagraficamente inverosimile: mentre è proprio la sua età distante dal
personaggio a farne linterprete ideale per la Salome metamorfica e
indescrivibile voluta da Kosky. Impagabile scenicamente (formidabile il suo
saltellare come una bambina viziata, o il trasformarsi in accanita pugilatrice
contro la testa mozzata di Jochanaan), presenta invece qualche disomogeneità
canora: non tutto larco dellemissione è parimenti a fuoco, il registro
medio-grave denuncia occasionali “buchi”. Tuttavia, qui sono proprio certe
disarmonie vocali a definire il personaggio; e lo scavo straordinario che sa
imprimere a ogni frase pareggia definitivamente il conto.
Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni
Il baritono Nicholas Brownlee è uno Jochanaan solido per risonanza più che per timbro
(un colore piuttosto chiaro, che tende a impoverirsi in quella bassa tessitura
su cui spesso insiste il ruolo) e, di conseguenza, raffigura un profeta
inflessibile, martellante, eppure consapevolmente votato alla sconfitta. I due
tenori John Daszak incarna Erode, mentre Joel
Prieto si fa carico di Narraboth
sono ben differenziati, luno rifacendosi a una tenorilità
caricaturale-espressionista che discende dal Mime wagneriano, laltro
sfoggiando un canto più “latino” e soavemente malinconico. Il paggio (qui un lobby boy cui la regia restituisce quellattrazione verso Narraboth sulla
quale Wilde insisteva, ma Strauss glissava) trova in Karina Kherunts un
puntuale mezzosoprano en travesti, mentre le vestigia della
veterana Katarina Dalayman non bastano a render giustizia
alla vocalità di Erodiade. È però una cantante-attrice piena di sapore nel dar
vita a una rancorosa e petulante sovrana in tailleur
e, per come Kosky concepisce il personaggio, tanto basta.
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