A
dieci anni di distanza dal fantascientifico Under the Skin (2013), il
regista londinese Jonathan Glazer ha presentato a maggio 2023, in
concorso a Cannes, La zona dinteresse, aggiudicandosi il Grand Prix
Speciale della Giuria e il Premio FIPRESCI. Il film – co-produzione
anglo-polacca – è stato inoltre candidato a ben cinque premi Oscar: miglior
film, regista, sceneggiatura non originale, film internazionale e sonoro. Più
che un fedele adattamento dellomonimo romanzo (2014) del connazionale Martin
Amis (incentrato su tre storie), Glazer – dopo innumerevoli ricerche sulla
coesistenza tra vita e morte sul limitare del lager – attua una decisa
riduzione ponendo al centro solo la famiglia di Rudolf Höß, il primo
comandante del complesso concentrazionario di Auschwitz. Il
titolo fa infatti riferimento alla superficie che perimetrava il campo, destinata
alla permanenza dei suoi carnefici.
Una scena del film
Il
titolo della pellicola, che appare in carattere bianco sullo schermo, sprofonda
lentamente verso il nero prima di interminabili minuti di oscurità totale sullo
schermo: è il preludio di un segmento di vita del nazista (Christian
Friedel) e di sua moglie Edwig (Sandra Hüller). I due
conducono una vita apparentemente idilliaca in una villa signorile, con tanto
di servitù, insieme ai loro cinque figli: gite in barca, giardino pazientemente
curato, picnic sulle rive di un lago, tè con le amiche per lei e lavoro
dufficio per lui. Il focus delle vicende ruota insomma attorno ai tentativi
della coppia di coniugare questioni familiari (come le scelte corrette per la
crescita dei bambini) a quelle logistico-lavorative (lottimizzazione delle
camere a gas e dei forni crematori). Tra i momenti che spezzano la loro ruotine
vi sono la visita della madre di Edwig e il trasferimento temporaneo di Rudolph
in Germania. Verso il finale questultimo, grazie ad un flashforward, osserva
il lager di Auschwitz ai giorni nostri, con alcune inservienti intente a pulire
le teche in cui sono conservate le incalcolabili protesi dei deportati, le loro
valigie, le loro scarpe. Sorge spontaneo un accostamento di questa scena allimprescindibile
documentario Austerlitz (2016) di Sergeï Loznitsa, nel quale il
regista ucraino affrontava con amarezza le modalità di fruizione dei visitatori
nello spazio museale del campo di concentramento tedesco di Sachsenhause.
Una scena del film
Un
aspetto predominante de La zona dinteresse è senzaltro legato alle
riprese: girato nel 2021 proprio nei pressi di Auschwitz, Glazer e il direttore
della fotografia polacco Łukasz Żal (due volte candidato allOscar, nel
2015 per Ida e nel 2019 per Cold War) scelgono di posizionare una
decina di macchine da presa sul set (ricreato ad hoc dallo scenografo Chris
Oddy), di cui solo alcune visibili agli attori. Dunque, nessun operatore,
nessuna attrezzatura, nessun primo piano, con tutto il girato supervisionato
dal regista dallinterno di una roulotte, come un reality show, lasciando di
fatto soli gli attori con gli oggetti, con la scenografia, con la storia, per
consentirgli un più intimo avvicinamento agli eventi e allo stesso tempo dando
anche allo spettatore la possibilità di immedesimarsi con i personaggi e di
considerarli il più possibile “umani”. Soluzione di rara intensità, inoltre,
quella di inserire delle sequenze notturne di una ragazza polacca – ripresa con
camere termiche – intenta a nascondere mele e altri viveri nel campo, per i
prigionieri. La giovane rappresenta un omaggio a una figura realmente esistita
che Glazer ha conosciuto di persona: nel film lattrice utilizza proprio gli abiti
originali.
Una scena del film
La
zona dinteresse è un progetto bicefalo: cè un film che si
vede e uno che si sente. Sul versante visivo sono pochi ma memorabili gli
elementi e i segnali che suggeriscono labominio: dalla cenere nel fiume ai
denti doro usati dai bambini come giocattoli, dalla fuga della madre di Edwig
dopo aver compreso tutto, fino alla scelta dei vestiti, da parte della padrona
di casa, appartenuti a prigioniere che mai più verranno a reclamarli. Il
passato di umili origini della donna e la sua voglia di rivalsa erompono
quando, con nonchalance, dichiara: «Forse Esther Silberman è laggiù… quella per
cui facevo le pulizie». Le emozioni che emergono durante la visione del film
risultano esigue, a riprova dellintenzione dellautore classe 1965 di
restituire sullo schermo freddezza e scientificità alle immagini pur senza
leziosità. Questa tensione sempre sottotraccia è influenzata anche da un
mancato sviluppo dei personaggi, che appaiono purtroppo bidimensionali.
Sul
versante legato al suono non si parla di una colonna sonora o di un tema che
ricorre durante il film quanto piuttosto di un sordo basso continuo frutto del
certosino lavoro dellaudio designer Johnnie Burn e della compositrice Mica
Levi. Una vera e propria sperimentazione, un tentativo di sintetizzare il fragore
dellinferno attraverso un insieme luculliano di perturbazioni sonore e scorci
di atrocità, corrispondenti a tutto ciò che sentono quotidianamente gli
abitanti della villa: rumori di treni in arrivo, voci incomprensibili, spari, latrati,
urla sia di ebrei sia di carcerieri, minacce, frastuono dei forni. Proprio
questi ultimi sono una presenza visiva costante, di giorno e di notte, sempre
in attività come un occhio senza palpebre che osserva ogni cosa dallalto.
Laffidarsi al sonoro rappresenta il tentativo di rappresentare il non
rappresentabile, la potenza del fuoricampo, quelloscenità che veniva relegata
già nel teatro greco antico nello spazio retroscenico (ob skenè): il male assoluto comunicato
al pubblico solo, appunto, attraverso il rumore.
Una scena del film
Si
ritorna dunque alla tensione iconoclastica di Claude Lanzmann che nel
suo monumentale documentario Shoah (1985) rifuggiva qualsiasi immagine
di repertorio. Inoltre, a differenza dell“iconofilo” Jean-Luc Godard, Lanzmann
dichiarava che, se durante le sue ricerche avesse trovato filmati girati dalle
SS allinterno di una camera a gas, li avrebbe senza esitazione distrutti (mentre
il regista francese dichiarò più volte che quelle eventuali registrazioni
avrebbero riscattato il cinema dallincapacità di dare forma allindicibile).
Glazer è senzaltro più vicino a Lanzmann nel rifiuto del voyeurismo per appropinquarsi
invece alla comprensione, allimmedesimazione di un male banale, troppo banale.
Ma dove si nasconde questo male? Lo stesso Primo Levi, nella prefazione
allautobiografia di Höß, definisce il comandante del lager «un grigio
funzionario qualunque, ligio alla disciplina ed amante dellordine». Risulta
facile pensare a questi aguzzini e additarli come creature mostruose e mettersi
al riparo con la convinzione di essere diversi da loro. Il fulcro de La zona
dinteresse è che queste abiette figure, allinizio, sono semplici ragazzi
con sogni e desideri come ce li abbiamo tutti. Le scelte registiche vogliono
spingerci a ritrovare in loro un qualcosa di familiare, un riflesso di noi
stessi.
Un
film che non senza qualche tentennamento vuole farsi urgente grido dallarme,
unopera che stenta a decollare subito dopo la visione, che necessita di
decantazione per poi, inesorabilmente, deflagrare nellintimo dello spettatore.
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