Quello tra uomo e natura è un rapporto di
lunga durata. Un rapporto che tuttavia rischia di deteriorarsi quando luomo
abita le grandi metropoli o territori fortemente soggetti alle azioni
antropiche. Oggi la salvaguardia dellambiente, che è presupposto per la
sopravvivenza, trova espressione soprattutto negli attivisti. Si pensi a gesti
discutibili, estremi ma dal forte valore simbolico da parte del gruppo di
protesta Last Generation: la salsa di pomodoro su I girasoli di Van
Gogh (Londra, National Gallery) e il purè di patate su Il pagliaio
di Monet (Potsdam, Museum Barberini). Più che tentare di instaurare un
dialogo tra attività antropica e sensibilità verso altrettanto importanti
tematiche ambientali, sembrano sancire una cesura, assumendo quasi il sapore di
un grido di guerra.
Daltra parte, anche larte continua a
interrogarsi su questo tema. Nel corso della storia, tale questione ha assunto
le più svariate forme: dal distacco degli epicurei dalle tensioni
dellattualità e dalle passioni a favore di una vita saggiamente appartata,
fino ai viaggi esotici della letteratura; dal sublime pittorico di Caspar
David Friedrich al “riciclo creativo” di alcuni contemporanei come Mika
Koizumi o Arun Kumar, dei quali ricordiamo rispettivamente le “meduse
di plastica” e la scultura Droppings and the dam, realizzata con tappi
di plastica raccolti in tutto il mondo.
Anche la danza contemporanea cerca il proprio
spazio in questo filone. Sul territorio fiorentino, a proposito di epicureismo,
Virgilio Sieni ha tradotto in danza La natura delle cose di Lucrezio
e ha utilizzato piante vere per la scenografia di Paradiso. Annamaria
Ajmone, in scena a Cango nellambito del festival “La democrazia del
corpo”, opta invece per una riflessione immersiva nellalterità, intesa come
mondo notturno del vegetale e dellanimale.
Una scena di La notte è il mio giorno preferito © Andrea Macchia
Gli oggetti di scena richiamano mondi
tropicali in linea con limmaginario comune: più che una foresta reale, ostile
e inaccessibile, vediamo una sorta di paradiso terrestre. È il sapiente uso di
luci e di ombre – oltre allazione della performer – a rendere lidea di
una dimensione inquietante e primordiale. Anche il suono, eseguito in parte dal
vivo tramite la voce dalla danzatrice e in parte attraverso la riproduzione
della musica composta appositamente da Flora Yin Wong, rievoca un ritmo
a metà tra il bucolico e il tribale. Suoni che rievocano le fronde al vento e
il passaggio furtivo degli animali si fondono a ritmi che, per quanto lontani,
riconosciamo paradossalmente come vicini, quotidiani.
Dal punto di vista stilistico, la coreografia
si inserisce in un “genere” ormai riconoscibile, senza tuttavia rinunciare alla
contaminazione e alla ricerca del movimento. Ogni più remota e dimenticata
parte del corpo diventa materia narrativa e motivo di curiosità ed esplorazione.
Di particolare tensione il momento in cui un occhio di bue rosso cerca
freneticamente nel buio la protagonista, a simboleggiare il pericolo o il fatto
che oggi – complici i social media – siamo tutti soggetti a qualche
forma di osservazione, di controllo.
Una scena di La notte è il mio giorno preferito
© Andrea Macchia
La (ri)scoperta di una dimensione naturale e
primordiale sembra avvalersi del terzo pilastro della Mindfulness: la
“mente del principiante”. Si tratta di uno sguardo puro che osserva lo
straordinario ma soprattutto lordinario con curiosità, come farebbe un
bambino. Ajmone racconta lestraneità attraverso la paura/attrazione del buio,
rievocando le parole di Fabio Geda sul libro Nel mare ci sono i
coccodrilli: «avere paura di ciò che non si vede […] è tipico
dellinfanzia. […] Dovrebbero essere gli adulti a dire loro che non cè nessun
mostro nellarmadio» (Storia di un figlio, Milano, Baldini+Castoldi,
2020, p. 79).
A compiere questo viaggio è proprio ladulto,
privato da opinioni preconcette a favore della “mente del principiante”. La
danzatrice accetta di diventare parte del buio, essere animale o vegetale di un
indefinito ecosistema. La notte è il mio giorno preferito – ispirato a
una lettera scritta da Emily Dickinson – interpreta e trasmette il senso
del buio come presenza di qualcosa che non conosciamo, ma che forse ci
appartiene.
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