«Non
si può arrestare il movimento del tempo, né coglierlo, si può solo essere
continuamente nel suo sviluppo, fino alla fine», diceva solo qualche mese prima
di morire, a novantasette anni.
In
ottantanni di radiosa carriera, segnata da repentini cambi di direzione e da deviazioni
tanto eccentriche quanto coerenti, Peter
Brook è stato un sensibile sismografo dei tempi (e degli spazi), capace di
coglierne il respiro, le tensioni, le vibrazioni. Dal 1943, anno della sua
prima regia (Doctor Faustus da Christopher
Marlowe), al 2022 in cui mette in scena la sua ultima Tempesta shakespeariana, Brook non ha mai smesso di cogliere gli
interrogativi e le contraddizioni delle società che attraversava, in un
centinaio di creazioni teatrali e dodici film.
Il
presente era il suo spazio, praticava listante, senza nostalgie né proiezioni.
E infatti sedeva ancora tra gli spettatori de Les Bouffes du Nord, durante le
rappresentazioni della sua ultima pièce, per sentire la sala e poi intervenire
nitidamente sul lavoro scenico sfrondandolo e vivificandolo. Era prassi
consueta quella di accordare come un musicista la sua opera, grazie al
pubblico, anzi ai pubblici, concretizzando esemplarmente unidea di teatro che non
può mai strutturarsi in forma. Unidea che lo accompagnava dagli albori, se già
a ventitré anni, quando dirigeva un colossale Boris Godunov di Musorgskij, al Covent Garden, stordiva
il direttore di scena, telefonandogli trenta minuti prima della prima per
informarlo che bisognava invertire tutte le entrate in scena dei coristi che
aprivano lo spettacolo.
Il
movimento incessante e linsofferenza alle definizioni erano attitudini innate
del giovane inglese di buona famiglia che amava il cinema e si era dedicato al
teatro per ripiego, alla fine della Seconda guerra mondiale. Lappassionata dedizione
al mestiere, il pensiero rapidissimo e una certa dose di fortuna lo avevano
portato a dirigere la Royal Opera House al Covent Garden a soli ventidue anni e
a diventare ben presto uno dei nomi di punta del mondo dello spettacolo. Si
divide allora tra Londra e gli Stati Uniti, dedicandosi senza sosta alla
produzione di regie contemporanee (Arthur
Miller, Tennessee William, Jean Anouilh, Jean Genet) che si intrecciano a un ritmo vertiginoso a
reinterpretazioni shakespeariane sempre più inedite, prima tra tutte il Titus
Andronicus messo in scena a Stratford-upon-Avon nel 1955 che, con la sua
musica concreta, annuncia le sperimentazioni sul suono degli anni a venire. Anche
il riscatto al cinema è rapido, con Moderato Cantabile (1960) che valse
a Jeanne Moreau il premio per la
miglior interpretazione femminile al Festival di Cannes, e con Lord of the
flies (Il Signore delle mosche) nominato alla Palma dOro al Festival di
Cannes nel 1963.
La
via è già quella di un artista programmaticamente senza esclusioni, che
accoglie linatteso e costruisce a partire da incontri. Le cene da Gordon Craig, le lunghe discussioni con
Samuel Beckett, le visite a Joanne Littlewood e Wole Soyinka costellano i primi anni,
inaugurando una pratica di dialogo creativo che si aprirà ai più diversi
pensatori della scena come Jerzy
Grotowski, di cui diverrà amico fraterno, e Julian Beck del Living Theatre, ma anche a un nutrito numero di
intellettuali e artisti africani come Athol
Fugard, Barney Simon, Amadou Hampâté Bâ. Curioso, vigile e attento
Brook assorbe, trasforma e restituisce in scena le dinamiche culturali che attraversano
i tempi. Basti pensare al suo King Lear del 1962 interpretato da Paul Scofield, che nacque dallincontro
con Jan Kott e con il suo testo Shakespeare,
nostro contemporaneo ed ebbe un forte impatto politico durante la sua
tournée nei paesi dellallora blocco orientale.
A
partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, le produzioni si fanno più
radicali: dal potentissimo Marat Sade di Peter Weiss del 1964 allo straordinario US sulla guerra in
Vietnam, del 1966, da cui trarrà il riuscitissimo film Tell me lies (1968)
in cui la questione del razziale, le lotte di liberazione e gli interrogativi
sulla non violenza colpiscono a un ritmo sincopato e travolgente.
È
la linea che apre lelaborazione delle folgoranti riflessioni che comporranno The
Empty Space (Lo spazio vuoto), il suo celeberrimo testo edito nel
1968 che segnerà diverse generazioni di artisti. Un libro quasi profetico che
indica una direzione, senza conoscerne ancora le strade. Come lui stesso
dichiarerà molti anni dopo, solo col tempo ne coglierà le declinazioni
inaspettate, che vanno ben oltre la raffinata essenzialità delle forme, ma
coinvolgono lambito interpretativo interno allattore e il sottile ed effimero
rapporto allimmaginario del pubblico.
Ed
è proprio la ricerca di questo inesorabile vuoto appena sospettato a spingere
Brook, alla fine degli anni Sessanta, verso un cambio di rotta che lo vede
arrestare la sua attività di produzione, per dedicarsi esclusivamente ai
processi di creazione. Con laiuto di Jean-Louis
Barrault mette in piedi un gruppo internazionale e si trasferisce a Parigi,
fuggendo «la xenofobia e il razzismo della scena inglese» (come lui stesso
dichiara). Fonda il CIRT, Centre International de Recherche Théâtrale, un laboratorio
itinerante di ricerca composto da artisti senza alcun riferimento comune (neppure
la lingua), sorta di specchio della molteplice complessità della società
urbana. Unidea che farà scuola.
Con il CIRT
intraprende le prime decise sperimentazioni sul suono e sulla radice del
linguaggio che porteranno al criptico Orghast, creazione concepita con
il poeta Ted Hughes e rappresentata
una sola volta a Shiraz, nellallora Persia. Poi è la volta del viaggio in
Africa, territorio allora considerato di scarso interesse teatrale. In
controtendenza rispetto ai registi dellepoca che si rivolgono a Oriente, Brook
intuisce la ricchezza dei linguaggi performativi aperti e improvvisativi che potrà
trovare nel continente. I tre mesi di improvvisazioni nei villaggi aprono un
terreno di sperimentazione prezioso che determineranno alcuni di quelli che
diverranno gli elementi caratteristici del suo teatro.
LAfrica
diventa uno dei poli del teatro di Brook, insieme a Shakespeare. Territorio privilegiato di uninterlocuzione che si
sviluppa lungo tutta la vita, attraverso i tanti viaggi di ricerca, i mutui
scambi di pratiche ed estetiche, una serie di spettacoli memorabili e soprattutto
le costanti collaborazioni a cavallo tra i due continenti, in una reciprocità
che non tradisce dinamiche postcoloniali.
Al
ritorno a Parigi, dopo il periodo itinerante del CIRT, tutto riprende forma grazie
allepifania spaziale del teatro Les Bouffes du Nord che Brook racconta di aver
scoperto di notte infilandosi nel buio pertugio di un muro alla periferia della
città. Quasi un segno. È un teatro allitaliana abbandonato dopo il suo
incendio che Brook adotta e riapre, lasciandolo vuoto a far eco alla nitidezza
delle sue immagini. Le tracce del fuoco alle pareti come rughe che segnano il
tempo, lalta cupola che apre alla verticalità dei suoi misteri, Les Bouffes è lo
spazio della memoria che si riempie di visioni, con il pubblico assiepato intorno
agli attori, vicini tanto da sfiorarsi. Les Bouffes sarà lutero creativo di
Brook in cui si concepiscono gli spettacoli che poi escono per andare nel mondo
e attraversare, in tournée, altri teatri o altri spazi, come cave, fabbriche
abbandonate, periferie o deserti. E poi tornar arricchiti e maturati. Un
dispositivo spaziale intimo ma aperto. Come il suo teatro.
Per
inaugurare lo spazio ritrovato de Les Bouffes, nel 1974, Brook sceglie un testo
shakespeariano considerato minore, Timone dAtene, interpretato dai suoi
compagni del CIRT. È la sua cinquantesima regia, la prima parigina.
Dalla
prima di Timone allultima regia della Tempesta nellaprile
scorso, Les Bouffes ha visto creare al suo interno oltre quaranta spettacoli,
tra cui alcuni dei capolavori scenici che hanno fatto la storia del teatro. Dalla
mistica persiana de La Conférence des Oiseaux (1979) al maestoso Mahabharata
di terra, acqua e fuoco (1985). Dalla radicale essenzialità de Les Iks
(1975), che tanto colpì il mondo della ricerca, al grottesco brut dellUbu
da Jarry (1979) e de LOs del
senegalese Birago Diop (1977). Dal dinamico
repertorio di drammaturgie sudafricane anti-apartheid: Woza Albert! (1989),
Le Costume (1999), Sizwe Banzi est mort (2006), The Suit (2012) che segnano
la fase più politica del suo teatro, allimpalpabile espressione scenica di Tierno
Bokar (2004), omaggio a unAfrica intima, esoterica e fragile, a cui il
regista lavora per più di ventanni.
E
poi le articolate riflessioni sui processi mentali, sul funzionamento delle
percezioni e i misteri del cervello ne LHomme qui nel 1993 (tratto dal
libro di Oliver Sacks di cui Brook
era amico), Je suis un phénomène
nel 1998 e The valley of Astonishment nel 2014. E gli
spettacoli-ricerca che indagano la rappresentazione scenica e il suo
linguaggio, come Qui est là? (1995) polifonia di echi e parole di Artaud, Brecht, Craig, Mejerchold, Stanislavskij e Zeami, i
riferimenti con cui Brook fu in costante dialogo senza alcun posizionamento
formale.
Anche
lopera musicale trova ne Les Bouffes una perfetta dimensione sonora, raccolta
e innovativa, con La Tragédie de Carmen nel 1981 nata dalla
collaborazione del compositore Marius
Constant, il Don Giovanni di Mozart
del 1998 e Une flûte enchantée dello stesso Mozart creata con il
musicista Franck Krawczyk nel 2010.
E
infine loro: i rarefatti e inarrivabili Shakespeare che pullulano di spiriti
latenti e dimensioni invisibili. La Tempête del 1991 interpretata
dallipnotico attore burkinabé Sotigui
Kouyaté è una saetta che fa tabula rasa di un secolo di rappresentazioni e
immaginari scenici. Il suo Prospero preciso, trasparente e decoloniale apre la
strada allAmleto interpretato da Adrian
Lester in The Tragedy of Hamlet nel 2000 e da William Nadylam in La tragedie dHamlet nel 2002 (ambedue di
origine africana), intervenendo in una scena europea ancora fortemente marcata
da criteri razziali.
Negli
ultimi anni, intensi e prolifici, riemerge con salda esperienza e finissima
competenza la ricerca sul suono che parte da Orghast e arriva a Shakespeare.
E mentre scrive il testo Playing by the Ear, Reflection on Music and Sound
(edito in Italia come Il Dettaglio è il segreto del 2020) è a orecchio
che Brook dirige, in unorchestrazione quasi musicale e ritmica del movimento. Suoni
isolati e scricchiolii periferici si moltiplicano in scena facendo presagire
mondi invisibili, mentre i suoi occhi si indeboliscono progressivamente, in un
impercettibile spostamento di sensi. Nei suoi ultimi spettacoli, Battlefield
(2015) e The Prisoner (2018), tornano anche gli echi delle vecchie
creazioni. E cè un racconto che ricompare spesso: lantica parabola sufi che
Brook aveva già utilizzato nel 1966 per chiudere US sulla guerra del
Vietnam e poi ne La Conférence e nel Mahabharata: «Una notte le
farfalle si riunirono intorno al loro maestro e si interrogarono sulla natura
del fuoco. Per rispondere al quesito la prima farfalla volò fino a quando vide
la luce di una candela che brillava. Tornò e raccontò con parole dotte e
ricercate ciò che aveva visto. Ma il maestro disse che questo non rispondeva
alla domanda. Una seconda farfalla partì e si avvicinò alla candela fino a
sfiorare la fiamma. Tornò con le ali bruciate e raccontò il suo viaggio. Il
maestro disse: “Neppure tu hai conosciuto”. Allora una terza farfalla si mosse;
ebbra damore, si tese in avanti e si gettò sulla fiamma. Il suo corpo si fece
rosso come il fuoco, diventando una cosa sola con lui. Aveva conosciuto la luce
ma non poteva più dirla».
Il
koan senza risposta scava e le domande sceniche restano aperte come il muto silenzio
che calava in sala alla fine dei suoi spettacoli. Le mani degli spettatori
quasi impedite ad applaudire da un sapiente rallentamento ritmico e da una
progressiva illuminazione a giorno che spingevano a restare ancora un istante
nello spazio dellenigma, insieme. «Non esistono risposte a una vera domanda.
Si possono trovare modi di dare sollievo alla domanda. Ma non ci sono risposte
allignoto. Si può solo lasciar bruciare ciò che vogliamo sapere» diceva
sorridendo serafico e sibillino, nel suo ultimo incontro pubblico.
Nellultimo
Brook le tracce e le citazioni si intrecciano e dialogano autonomamente, quasi il
regista si limitasse ad assistere allincontro delle sue numerose creature
sceniche, in frammenti di storie. Quasi Prospero sullisola. Ma non cè
nostalgia, né rimpianto. In un movimento che non demorde, né arresta. Molti dei
suoi attori sono ormai scomparsi, lasciando la loro ombra in scena che viene
finemente raccolta da altri. Il sensibile e taciturno attore ruandese Ery Nzaramba avrà il destino di
incarnare lultimo Prospero della sua ultima Tempesta, Tempest Project, montata nel suo appartamento con un pugno di giovani attori,
mentre il mondo teatrale si spegne nellafasia del Covid.
È
unistantanea essenziale e lucida dellopera più enigmatica di Shakespeare, «il
suo addio alle scene, il suo testamento che si concretizza nellultima parola
da lui scritta», come spiega lo stesso Brook, in un gioco di specchi e
identità.
In
una penombra scenica, appena visibile, una sola parola. Lultima. «Free». Libero.
Come
Prospero, Brook ha abbandonato la scena lasciandoci impresse nella retina
centinaia di immagini luminose e una vibrazione che suona nel silenzio.
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