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Ricordo di Peter Brook

di Rosaria Ruffini
  Peter Brook
Data di pubblicazione su web 19/07/2022  

«Non si può arrestare il movimento del tempo, né coglierlo, si può solo essere continuamente nel suo sviluppo, fino alla fine», diceva solo qualche mese prima di morire, a novantasette anni.

In ottant’anni di radiosa carriera, segnata da repentini cambi di direzione e da deviazioni tanto eccentriche quanto coerenti, Peter Brook è stato un sensibile sismografo dei tempi (e degli spazi), capace di coglierne il respiro, le tensioni, le vibrazioni. Dal 1943, anno della sua prima regia (Doctor Faustus da Christopher Marlowe), al 2022 in cui mette in scena la sua ultima Tempesta shakespeariana, Brook non ha mai smesso di cogliere gli interrogativi e le contraddizioni delle società che attraversava, in un centinaio di creazioni teatrali e dodici film.

Il presente era il suo spazio, praticava l’istante, senza nostalgie né proiezioni. E infatti sedeva ancora tra gli spettatori de Les Bouffes du Nord, durante le rappresentazioni della sua ultima pièce, per sentire la sala e poi intervenire nitidamente sul lavoro scenico sfrondandolo e vivificandolo. Era prassi consueta quella di accordare come un musicista la sua opera, grazie al pubblico, anzi ai pubblici, concretizzando esemplarmente un’idea di teatro che non può mai strutturarsi in forma. Un’idea che lo accompagnava dagli albori, se già a ventitré anni, quando dirigeva un colossale Boris Godunov di Musorgskij, al Covent Garden, stordiva il direttore di scena, telefonandogli trenta minuti prima della prima per informarlo che bisognava invertire tutte le entrate in scena dei coristi che aprivano lo spettacolo.

Il movimento incessante e l’insofferenza alle definizioni erano attitudini innate del giovane inglese di buona famiglia che amava il cinema e si era dedicato al teatro per ripiego, alla fine della Seconda guerra mondiale. L’appassionata dedizione al mestiere, il pensiero rapidissimo e una certa dose di fortuna lo avevano portato a dirigere la Royal Opera House al Covent Garden a soli ventidue anni e a diventare ben presto uno dei nomi di punta del mondo dello spettacolo. Si divide allora tra Londra e gli Stati Uniti, dedicandosi senza sosta alla produzione di regie contemporanee (Arthur Miller, Tennessee William, Jean Anouilh, Jean Genet) che si intrecciano a un ritmo vertiginoso a reinterpretazioni shakespeariane sempre più inedite, prima tra tutte il Titus Andronicus messo in scena a Stratford-upon-Avon nel 1955 che, con la sua musica concreta, annuncia le sperimentazioni sul suono degli anni a venire. Anche il riscatto al cinema è rapido, con Moderato Cantabile (1960) che valse a Jeanne Moreau il premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di Cannes, e con Lord of the flies (Il Signore delle mosche) nominato alla Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1963.

La via è già quella di un artista programmaticamente senza esclusioni, che accoglie l’inatteso e costruisce a partire da incontri. Le cene da Gordon Craig, le lunghe discussioni con Samuel Beckett, le visite a Joanne Littlewood e Wole Soyinka costellano i primi anni, inaugurando una pratica di dialogo creativo che si aprirà ai più diversi pensatori della scena come Jerzy Grotowski, di cui diverrà amico fraterno, e Julian Beck del Living Theatre, ma anche a un nutrito numero di intellettuali e artisti africani come Athol Fugard, Barney Simon, Amadou Hampâté Bâ. Curioso, vigile e attento Brook assorbe, trasforma e restituisce in scena le dinamiche culturali che attraversano i tempi. Basti pensare al suo King Lear del 1962 interpretato da Paul Scofield, che nacque dall’incontro con Jan Kott e con il suo testo Shakespeare, nostro contemporaneo ed ebbe un forte impatto politico durante la sua tournée nei paesi dell’allora blocco orientale.

A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, le produzioni si fanno più radicali: dal potentissimo Marat Sade di Peter Weiss del 1964 allo straordinario US sulla guerra in Vietnam, del 1966, da cui trarrà il riuscitissimo film Tell me lies (1968) in cui la questione del razziale, le lotte di liberazione e gli interrogativi sulla non violenza colpiscono a un ritmo sincopato e travolgente.

È la linea che apre l’elaborazione delle folgoranti riflessioni che comporranno The Empty Space (Lo spazio vuoto), il suo celeberrimo testo edito nel 1968 che segnerà diverse generazioni di artisti. Un libro quasi profetico che indica una direzione, senza conoscerne ancora le strade. Come lui stesso dichiarerà molti anni dopo, solo col tempo ne coglierà le declinazioni inaspettate, che vanno ben oltre la raffinata essenzialità delle forme, ma coinvolgono l’ambito interpretativo interno all’attore e il sottile ed effimero rapporto all’immaginario del pubblico.

Ed è proprio la ricerca di questo inesorabile vuoto appena sospettato a spingere Brook, alla fine degli anni Sessanta, verso un cambio di rotta che lo vede arrestare la sua attività di produzione, per dedicarsi esclusivamente ai processi di creazione. Con l’aiuto di Jean-Louis Barrault mette in piedi un gruppo internazionale e si trasferisce a Parigi, fuggendo «la xenofobia e il razzismo della scena inglese» (come lui stesso dichiara). Fonda il CIRT, Centre International de Recherche Théâtrale, un laboratorio itinerante di ricerca composto da artisti senza alcun riferimento comune (neppure la lingua), sorta di specchio della molteplice complessità della società urbana. Un’idea che farà scuola.

Con il CIRT intraprende le prime decise sperimentazioni sul suono e sulla radice del linguaggio che porteranno al criptico Orghast, creazione concepita con il poeta Ted Hughes e rappresentata una sola volta a Shiraz, nell’allora Persia. Poi è la volta del viaggio in Africa, territorio allora considerato di scarso interesse teatrale. In controtendenza rispetto ai registi dell’epoca che si rivolgono a Oriente, Brook intuisce la ricchezza dei linguaggi performativi aperti e improvvisativi che potrà trovare nel continente. I tre mesi di improvvisazioni nei villaggi aprono un terreno di sperimentazione prezioso che determineranno alcuni di quelli che diverranno gli elementi caratteristici del suo teatro.

L’Africa diventa uno dei poli del teatro di Brook, insieme a Shakespeare. Territorio privilegiato di un’interlocuzione che si sviluppa lungo tutta la vita, attraverso i tanti viaggi di ricerca, i mutui scambi di pratiche ed estetiche, una serie di spettacoli memorabili e soprattutto le costanti collaborazioni a cavallo tra i due continenti, in una reciprocità che non tradisce dinamiche postcoloniali.

Al ritorno a Parigi, dopo il periodo itinerante del CIRT, tutto riprende forma grazie all’epifania spaziale del teatro Les Bouffes du Nord che Brook racconta di aver scoperto di notte infilandosi nel buio pertugio di un muro alla periferia della città. Quasi un segno. È un teatro all’italiana abbandonato dopo il suo incendio che Brook adotta e riapre, lasciandolo vuoto a far eco alla nitidezza delle sue immagini. Le tracce del fuoco alle pareti come rughe che segnano il tempo, l’alta cupola che apre alla verticalità dei suoi misteri, Les Bouffes è lo spazio della memoria che si riempie di visioni, con il pubblico assiepato intorno agli attori, vicini tanto da sfiorarsi. Les Bouffes sarà l’utero creativo di Brook in cui si concepiscono gli spettacoli che poi escono per andare nel mondo e attraversare, in tournée, altri teatri o altri spazi, come cave, fabbriche abbandonate, periferie o deserti. E poi tornar arricchiti e maturati. Un dispositivo spaziale intimo ma aperto. Come il suo teatro.

Per inaugurare lo spazio ritrovato de Les Bouffes, nel 1974, Brook sceglie un testo shakespeariano considerato minore, Timone d’Atene, interpretato dai suoi compagni del CIRT. È la sua cinquantesima regia, la prima parigina.

Dalla prima di Timone all’ultima regia della Tempesta nell’aprile scorso, Les Bouffes ha visto creare al suo interno oltre quaranta spettacoli, tra cui alcuni dei capolavori scenici che hanno fatto la storia del teatro. Dalla mistica persiana de La Conférence des Oiseaux (1979) al maestoso Mahabharata di terra, acqua e fuoco (1985). Dalla radicale essenzialità de Les Iks (1975), che tanto colpì il mondo della ricerca, al grottesco brut dell’Ubu da Jarry (1979) e de L’Os del senegalese Birago Diop (1977). Dal dinamico repertorio di drammaturgie sudafricane anti-apartheid: Woza Albert! (1989), Le Costume (1999), Sizwe Banzi est mort (2006), The Suit (2012) che segnano la fase più politica del suo teatro, all’impalpabile espressione scenica di Tierno Bokar (2004), omaggio a un’Africa intima, esoterica e fragile, a cui il regista lavora per più di vent’anni.

E poi le articolate riflessioni sui processi mentali, sul funzionamento delle percezioni e i misteri del cervello ne L’Homme qui nel 1993 (tratto dal libro di Oliver Sacks di cui Brook era amico), Je suis un phénomène nel 1998 e The valley of Astonishment nel 2014. E gli spettacoli-ricerca che indagano la rappresentazione scenica e il suo linguaggio, come Qui est là? (1995) polifonia di echi e parole di Artaud, Brecht, Craig, Mejerchol’d, Stanislavskij e Zeami, i riferimenti con cui Brook fu in costante dialogo senza alcun posizionamento formale.

Anche l’opera musicale trova ne Les Bouffes una perfetta dimensione sonora, raccolta e innovativa, con La Tragédie de Carmen nel 1981 nata dalla collaborazione del compositore Marius Constant, il Don Giovanni di Mozart del 1998 e Une flûte enchantée dello stesso Mozart creata con il musicista Franck Krawczyk nel 2010.

E infine loro: i rarefatti e inarrivabili Shakespeare che pullulano di spiriti latenti e dimensioni invisibili. La Tempête del 1991 interpretata dall’ipnotico attore burkinabé Sotigui Kouyaté è una saetta che fa tabula rasa di un secolo di rappresentazioni e immaginari scenici. Il suo Prospero preciso, trasparente e decoloniale apre la strada all’Amleto interpretato da Adrian Lester in The Tragedy of Hamlet nel 2000 e da William Nadylam in La tragedie d’Hamlet nel 2002 (ambedue di origine africana), intervenendo in una scena europea ancora fortemente marcata da criteri razziali.

Negli ultimi anni, intensi e prolifici, riemerge con salda esperienza e finissima competenza la ricerca sul suono che parte da Orghast e arriva a Shakespeare. E mentre scrive il testo Playing by the Ear, Reflection on Music and Sound (edito in Italia come Il Dettaglio è il segreto del 2020) è a orecchio che Brook dirige, in un’orchestrazione quasi musicale e ritmica del movimento. Suoni isolati e scricchiolii periferici si moltiplicano in scena facendo presagire mondi invisibili, mentre i suoi occhi si indeboliscono progressivamente, in un impercettibile spostamento di sensi. Nei suoi ultimi spettacoli, Battlefield (2015) e The Prisoner (2018), tornano anche gli echi delle vecchie creazioni. E c’è un racconto che ricompare spesso: l’antica parabola sufi che Brook aveva già utilizzato nel 1966 per chiudere US sulla guerra del Vietnam e poi ne La Conférence e nel Mahabharata: «Una notte le farfalle si riunirono intorno al loro maestro e si interrogarono sulla natura del fuoco. Per rispondere al quesito la prima farfalla volò fino a quando vide la luce di una candela che brillava. Tornò e raccontò con parole dotte e ricercate ciò che aveva visto. Ma il maestro disse che questo non rispondeva alla domanda. Una seconda farfalla partì e si avvicinò alla candela fino a sfiorare la fiamma. Tornò con le ali bruciate e raccontò il suo viaggio. Il maestro disse: “Neppure tu hai conosciuto”. Allora una terza farfalla si mosse; ebbra d’amore, si tese in avanti e si gettò sulla fiamma. Il suo corpo si fece rosso come il fuoco, diventando una cosa sola con lui. Aveva conosciuto la luce ma non poteva più dirla».

Il koan senza risposta scava e le domande sceniche restano aperte come il muto silenzio che calava in sala alla fine dei suoi spettacoli. Le mani degli spettatori quasi impedite ad applaudire da un sapiente rallentamento ritmico e da una progressiva illuminazione a giorno che spingevano a restare ancora un istante nello spazio dell’enigma, insieme. «Non esistono risposte a una vera domanda. Si possono trovare modi di dare sollievo alla domanda. Ma non ci sono risposte all’ignoto. Si può solo lasciar bruciare ciò che vogliamo sapere» diceva sorridendo serafico e sibillino, nel suo ultimo incontro pubblico.

Nell’ultimo Brook le tracce e le citazioni si intrecciano e dialogano autonomamente, quasi il regista si limitasse ad assistere all’incontro delle sue numerose creature sceniche, in frammenti di storie. Quasi Prospero sull’isola. Ma non c’è nostalgia, né rimpianto. In un movimento che non demorde, né arresta. Molti dei suoi attori sono ormai scomparsi, lasciando la loro ombra in scena che viene finemente raccolta da altri. Il sensibile e taciturno attore ruandese Ery Nzaramba avrà il destino di incarnare l’ultimo Prospero della sua ultima Tempesta, Tempest Project, montata nel suo appartamento con un pugno di giovani attori, mentre il mondo teatrale si spegne nell’afasia del Covid.

È un’istantanea essenziale e lucida dell’opera più enigmatica di Shakespeare, «il suo addio alle scene, il suo testamento che si concretizza nell’ultima parola da lui scritta», come spiega lo stesso Brook, in un gioco di specchi e identità. 

In una penombra scenica, appena visibile, una sola parola. L’ultima. «Free». Libero.

Come Prospero, Brook ha abbandonato la scena lasciandoci impresse nella retina centinaia di immagini luminose e una vibrazione che suona nel silenzio.



 



 
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