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Se una notte d’estate un direttore

di Paolo Patrizi
  Zaide
Data di pubblicazione su web 29/10/2020  

Nel 1979 Italo Calvino mandò alle stampe Se una notte d’inverno un viaggiatore: romanzo attorno a una lettura continuamente interrotta che ogni volta veniva ripresa abbandonando il testo precedente in favore di altre pagine e altri autori, diventando così riflessione sulla molteplicità dei piani narrativi, ma anche metafora dell’impotenza, da parte della letteratura, ad approdare a un’interpretazione univoca della realtà. Il romanzo diventò subito – come si suol dire – “di culto”, mentre è storia meno nota che, due anni dopo, quell’indagine di gnoseologia letteraria nascosta tra le pieghe dell’affabulazione ebbe una sorta di appendice nell’operazione compiuta da Calvino per la rassegna “Musica nel chiostro”, a Batignano, sperduto paesino della Maremma grossetana che, nell’ultimo ventennio del secolo scorso, svolse un ruolo tanto defilato quanto rilevante tra i nostri festival operistici estivi. Sempre più attratto da una letteratura sensibile alla musa dell’artificio e del gioco combinatorio, l’autore del Barone rampante ricostruì – su invito del direttore del festival, l’artista Adam Pollock – il libretto perduto di quell’oggetto misterioso che era, e resta, Zaide: un singspiel iniziato e mai portato a termine da Mozart, giocoforza indecifrabile nella drammaturgia salvo la certezza che ambientazione turca e snodi della trama preludono al Ratto dal serraglio. Un giovane inglese, destinato a fulgida e controversa carriera, fu il regista dello spettacolo.


Un momento dello spettacolo 
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dell’Opera di Roma

Sono passati quarant’anni e chissà se è casualità fortuita o scherzo del destino che, alla vigilia della nuova chiusura generalizzata dei palcoscenici di musica e prosa, il Teatro dell’Opera di Roma si sia congedato dal suo pubblico riproponendo, nella grande sala del Costanzi anziché nel piccolo chiostro batignanese, quell’operazione “di nicchia”: questa volta con il viatico di nomi prestigiosi (Chen Reiss protagonista, Daniele Gatti sul podio), ma tornando ad affidare la messinscena all’ex promettente regista di allora. Ovvero – lo si sarà capito – a Graham Vick. E, per quanto si trattasse di una produzione approntata all’ultimo momento in condizioni di emergenza (come quasi tutte le poche “cose” operistiche sbocciate in Italia negli ultimi mesi), i conti tornano. Alla perfezione. 

In primo luogo, resta affascinante la ricostruzione insieme arbitraria e inappuntabile di Calvino. Il Singspiel è un genere che giustappone due codici espressivi paralleli (parti cantate e parti recitate), dunque – per sua natura – è un’opera “aperta”, rispetto al mondo più unitario e conchiuso del melodramma tradizionale. Almanaccando attorno a tale permeabilità strutturale, e partendo dalle sole parole rimaste del libretto (quelle dei quindici brani che Mozart arrivò a mettere in musica), Calvino dunque reinventa. Sgorga così una storia ironicamente archetipica – i tòpoi delle “turcherie” settecentesche ci sono tutti – e certo concettosa, nell’espediente del narratore-demiurgo che impagina e scompagina il disunito materiale rimasto a disposizione, ma sempre all’insegna di quella leggerezza che per Calvino fu ineludibile bussola estetica. Una simile operazione, però, non potrebbe funzionare senza il supporto di una realizzazione a orologeria. Direttamente coinvolto nel “gioco” di Zaide fin dalla nascita, Vick si lascia alle spalle il suo “manierismo” degli ultimi tempi, tornando a essere quello degli anni migliori: non più senescente iconoclasta convinto che giocando la carta del trash si allontani la vecchiaia, ma un uomo di palcoscenico giovane dentro, che i meccanismi teatrali sa sciorinarli con lucidità creativa ed evidenza visiva.


Un momento dello spettacolo 
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dell’Opera di Roma

Di questo suo spettacolo restano negli occhi molti squarci trasognati, la gestualità insieme plastica e irreale costruita sui bravissimi cantanti-attori, certi tormentoni tra il teatro della crudeltà e il cartone animato. Stilizzato ed emblematico, l’impianto scenico di Italo Grassi ne è la cornice ideale: un cantiere costellato di bidoni e tubi Innocenti, che rimanda all’idea di work in progress implicita nella rielaborazione aperta a più soluzioni prospettata da Calvino. Ed è bello pensare che quella specie di minareto da fumetto al centro del palcoscenico sia una citazione trasfigurata del pozzo che, a Batignano, troneggiava in mezzo al chiostro: un po’ limitando gli spostamenti dei cantanti, un po’ trasformandosi in “personaggio visivo” con i registi più creativi. 

Daniele Gatti non è mai stato connotato come direttore mozartiano. Eppure questa sua lettura trasparente e insieme carica di pathos, ferma ed elegante senza cristallizzarsi nella squisitezza, rappresenta un antidoto al mozartismo barocchista oggi in voga, insufflando in Zaide un sentore di “commedia drammatica” che, oltre all’imminente Ratto dal serraglio, prelude anche ai successivi grandi traguardi del suo autore. Sotto quest’aspetto lascia ammirati, in primo luogo, l’accompagnamento dei due melologhi – saranno gli unici composti da Mozart – affidati ai due tenori: il primo di una bellezza musicale più abbacinante del secondo (è di competenza del protagonista maschile, l’altro spetta all’antagonista), ma caratterizzati entrambi, nella bacchetta di Gatti, da una pulsazione interna e una varietà di articolazione del fraseggio che guardano verso orizzonti insospettabili. Forse, pure all’uso che – del melologo – fa Beethoven nel Fidelio.


Un momento dello spettacolo 
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dell’Opera di Roma

Chen Reiss, invece, è soprano della generazione dei trenta-quarantenni, ma con i crismi delle grandi mozartiane di vecchia scuola: canto patetico sotto il segno della malinconia e mai della svenevolezza, eleganza innata elusiva di compiacimenti ornamentali, arte del porgere di matrice liederistica (il lirismo controllato delle prime due arie la colgono in totale empatia stilistico-tecnica, mentre nell’ultima aria “agitata” si nota il flettersi della cantante verso un immaginario canoro meno suo). Il tutto affiancato da una compenetrazione scenica e una freschezza attoriale che conferma come si possa cantare “antico” e recitare “moderno”. Juan Francisco Gatell non sarà fuoriclasse come la collega e la tessitura, molto centrale, a tratti lo penalizza (quando può occasionalmente sfogare in acuto la voce scorre limpida, mentre il baricentro della scrittura, assai più basso, lo induce a nasalizzare il suono); però è tenore-attore simpaticissimo e scatenatissimo, di quelli che ogni limite riescono a farlo passare in secondo piano. Più ambiguo e indefinito – non a caso è soprattutto intorno a lui che lavora la rielaborazione di Calvino – il ruolo del baritono: forse generoso salvatore, forse ambiguo doppiogiochista. Sul piano interpretativo Markus Werba mostra sufficiente personalità per restituirne le contraddizioni; sul fronte vocale, invece, la sua taglia di baritono lirico qui costretto a forti espansioni lo induce a varie forzature. 

L’altro tenore (il sultano innamorato che si vede preferire il proprio schiavo: una premonizione del pascià nel Ratto dal serraglio, senza lo spessore etico di quel personaggio) poteva contare sulla un po’ fievole correttezza, talvolta sovrastata dalle sonorità orchestrali, di Paul Nilon. Meglio il basso Davide Giangregorio, che si fa valere nei panni – anch’essi archetipici – di scherano grottescamente trucido e tirapiedi farsescamente malvagio, ritagliandosi la sua fettina di gloria in un’aria comico-virtuosistica di sicuro effetto. A fare da collante, resta la figura del Narratore: alter ego di Calvino, costruttore di finali alternativi e raccordi mancanti, voce e corpo d’una drammaturgia che si fa carico di trasformare il vuoto in pieno. Pacato e ironico, onnipresente eppure discretissimo, demiurgico ma sempre all’insegna dell’understatement, Remo Girone è irreprensibile anche quando occasionalmente s’impapera. Insomma il deus ex machina di quello che per Calvino – parafrasando due tra i suoi libri più famosi – era forse un “Singspiel inesistente”, o un “Singspiel dei destini incrociati”.



Zaide



cast cast & credits
 
trama trama


Un momento dello spettacolo visto il 24 ottobre 2020 al Teatro dell’Opera di Roma

© ph Yasuko Kageyama-Teatro dell’Opera di Roma


 
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