Nel 1979 Italo Calvino mandò alle
stampe Se una notte dinverno un viaggiatore: romanzo attorno a una
lettura continuamente interrotta che ogni volta veniva ripresa abbandonando il
testo precedente in favore di altre pagine e altri autori, diventando così
riflessione sulla molteplicità dei piani narrativi, ma anche metafora dellimpotenza,
da parte della letteratura, ad approdare a uninterpretazione univoca della
realtà. Il romanzo diventò subito – come si suol dire – “di culto”, mentre è
storia meno nota che, due anni dopo, quellindagine di gnoseologia letteraria
nascosta tra le pieghe dellaffabulazione ebbe una sorta di appendice nelloperazione
compiuta da Calvino per la rassegna “Musica nel chiostro”, a Batignano, sperduto
paesino della Maremma grossetana che, nellultimo ventennio del secolo scorso,
svolse un ruolo tanto defilato quanto rilevante tra i nostri festival
operistici estivi. Sempre più attratto da una letteratura sensibile alla musa
dellartificio e del gioco combinatorio, lautore del Barone rampante
ricostruì – su invito del direttore del festival, lartista Adam Pollock
– il libretto perduto di quelloggetto misterioso che era, e resta, Zaide:
un singspiel iniziato e mai portato a termine da Mozart, giocoforza indecifrabile nella
drammaturgia salvo la certezza che ambientazione turca e snodi della trama
preludono al Ratto dal serraglio. Un giovane inglese, destinato a
fulgida e controversa carriera, fu il regista dello spettacolo.
Un momento dello spettacolo
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dellOpera di Roma
Sono
passati quarantanni e chissà se è casualità fortuita o scherzo del destino
che, alla vigilia della nuova chiusura generalizzata dei palcoscenici di musica
e prosa, il Teatro dellOpera di Roma si sia congedato dal suo pubblico
riproponendo, nella grande sala del Costanzi anziché nel piccolo chiostro
batignanese, quelloperazione “di nicchia”: questa volta con il viatico di nomi
prestigiosi (Chen Reiss protagonista, Daniele Gatti sul
podio), ma tornando ad affidare la messinscena allex promettente regista di
allora. Ovvero – lo si sarà capito – a Graham Vick. E, per quanto si
trattasse di una produzione approntata allultimo momento in condizioni di emergenza
(come quasi tutte le poche “cose” operistiche sbocciate in Italia negli ultimi
mesi), i conti tornano. Alla perfezione.
In
primo luogo, resta affascinante la ricostruzione insieme arbitraria e
inappuntabile di Calvino. Il Singspiel è un genere che giustappone due
codici espressivi paralleli (parti cantate e parti recitate), dunque – per sua
natura – è unopera “aperta”, rispetto al mondo più unitario e conchiuso del
melodramma tradizionale. Almanaccando attorno a tale permeabilità strutturale,
e partendo dalle sole parole rimaste del libretto (quelle dei quindici brani
che Mozart arrivò a mettere in musica), Calvino dunque reinventa. Sgorga così
una storia ironicamente archetipica – i tòpoi delle “turcherie”
settecentesche ci sono tutti – e certo concettosa, nellespediente del
narratore-demiurgo che impagina e scompagina il disunito materiale rimasto a
disposizione, ma sempre allinsegna di quella leggerezza che per Calvino fu
ineludibile bussola estetica. Una simile operazione, però, non potrebbe funzionare
senza il supporto di una realizzazione a orologeria. Direttamente coinvolto nel
“gioco” di Zaide fin dalla nascita, Vick si lascia alle spalle il suo “manierismo”
degli ultimi tempi, tornando a essere quello degli anni migliori: non più
senescente iconoclasta convinto che giocando la carta del trash si
allontani la vecchiaia, ma un uomo di palcoscenico giovane dentro, che i
meccanismi teatrali sa sciorinarli con lucidità creativa ed evidenza visiva.
Un momento dello spettacolo
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dellOpera di Roma
Di
questo suo spettacolo restano negli occhi molti squarci trasognati, la
gestualità insieme plastica e irreale costruita sui bravissimi cantanti-attori,
certi tormentoni tra il teatro della crudeltà e il cartone animato. Stilizzato ed
emblematico, limpianto scenico di Italo Grassi ne è la cornice
ideale: un cantiere costellato di bidoni e tubi Innocenti, che rimanda allidea
di work in progress implicita nella rielaborazione aperta a
più soluzioni prospettata da Calvino. Ed è bello pensare che quella specie di
minareto da fumetto al centro del palcoscenico sia una citazione trasfigurata
del pozzo che, a Batignano, troneggiava in mezzo al chiostro: un po limitando
gli spostamenti dei cantanti, un po trasformandosi in “personaggio visivo” con
i registi più creativi.
Daniele
Gatti non è mai stato connotato come direttore mozartiano. Eppure questa sua lettura
trasparente e insieme carica di pathos, ferma ed elegante senza
cristallizzarsi nella squisitezza, rappresenta un antidoto al mozartismo
barocchista oggi in voga, insufflando in Zaide un sentore di “commedia
drammatica” che, oltre allimminente Ratto dal serraglio, prelude anche
ai successivi grandi traguardi del suo autore. Sotto questaspetto lascia
ammirati, in primo luogo, laccompagnamento dei due melologhi – saranno gli
unici composti da Mozart – affidati ai due tenori: il primo di una bellezza
musicale più abbacinante del secondo (è di competenza del protagonista
maschile, laltro spetta allantagonista), ma caratterizzati entrambi, nella
bacchetta di Gatti, da una pulsazione interna e una varietà di articolazione del
fraseggio che guardano verso orizzonti insospettabili. Forse, pure alluso che
– del melologo – fa Beethoven nel Fidelio.
Un momento dello spettacolo
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dellOpera di Roma
Chen
Reiss, invece, è soprano della generazione dei trenta-quarantenni, ma con i
crismi delle grandi mozartiane di vecchia scuola: canto patetico sotto il segno
della malinconia e mai della svenevolezza, eleganza innata elusiva di
compiacimenti ornamentali, arte del porgere di matrice liederistica (il lirismo
controllato delle prime due arie la colgono in totale empatia stilistico-tecnica,
mentre nellultima aria “agitata” si nota il flettersi della cantante verso un
immaginario canoro meno suo). Il tutto affiancato da una compenetrazione
scenica e una freschezza attoriale che conferma come si possa cantare “antico”
e recitare “moderno”. Juan Francisco Gatell non sarà
fuoriclasse come la collega e la tessitura, molto centrale, a tratti lo
penalizza (quando può occasionalmente sfogare in acuto la voce scorre limpida,
mentre il baricentro della scrittura, assai più basso, lo induce a nasalizzare
il suono); però è tenore-attore simpaticissimo e scatenatissimo, di quelli che ogni
limite riescono a farlo passare in secondo piano. Più ambiguo e indefinito –
non a caso è soprattutto intorno a lui che lavora la rielaborazione di Calvino
– il ruolo del baritono: forse generoso salvatore, forse ambiguo
doppiogiochista. Sul piano interpretativo Markus Werba mostra
sufficiente personalità per restituirne le contraddizioni; sul fronte vocale,
invece, la sua taglia di baritono lirico qui costretto a forti espansioni lo
induce a varie forzature.
Laltro
tenore (il sultano innamorato che si vede preferire il proprio schiavo: una
premonizione del pascià nel Ratto dal serraglio, senza lo
spessore etico di quel personaggio) poteva contare sulla un po fievole
correttezza, talvolta sovrastata dalle sonorità orchestrali, di Paul Nilon.
Meglio il basso Davide Giangregorio, che si fa valere nei panni –
anchessi archetipici – di scherano grottescamente trucido e tirapiedi
farsescamente malvagio, ritagliandosi la sua fettina di gloria in unaria comico-virtuosistica
di sicuro effetto. A fare da collante, resta la figura del Narratore: alter
ego di Calvino, costruttore di finali alternativi e raccordi mancanti,
voce e corpo duna drammaturgia che si fa carico di trasformare il vuoto in
pieno. Pacato e ironico, onnipresente eppure discretissimo, demiurgico ma
sempre allinsegna dellunderstatement, Remo Girone è
irreprensibile anche quando occasionalmente simpapera. Insomma il deus ex
machina di quello che per Calvino – parafrasando due tra i suoi libri più
famosi – era forse un “Singspiel inesistente”, o un “Singspiel
dei destini incrociati”.
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Zaide
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Un momento dello spettacolo visto il 24 ottobre 2020 al Teatro dellOpera di Roma
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dellOpera di Roma
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