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I fantasmi della storia

di Luigi Nepi
  Dorogie Tovarischi! (Cari compagni!)
Data di pubblicazione su web 06/10/2020  

«Si può fare la storia del cinema senza film?» si chiedeva uno dei miei maestri prima dell’avvento dei videoregistratori e videoproiettori nelle aule universitarie. Probabilmente anche il direttore Alberto Barbera quest’anno si sarà chiesto se si sarebbe potuta fare una Mostra d’Arte Cinematografica senza grandi autori e la risposta (altrettanto retorica a quella della domanda precedente) è stata evidentemente “no”. Sicché, anche se alla fine i grandi nomi si contano sulle dita di una mano (Konchalovskij, Gitai, Diaz, Kiyoshi Kurosawa), la loro presenza è stata senza dubbio indispensabile. A dare segnale che il primo di loro è arrivato al Lido ci pensa il sipario della Sala Grande, “restringendo” lo schermo per accogliere una proiezione in 4:3, ovvero il formato attualmente prediletto da molti registi russi e quello con cui, insieme al bianco e nero, Andrej Konchalovskij usa rileggere la storia del secolo scorso.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

È il primo giugno del 1962, nella città sovietica di Novocherkassk nel Donbass (sempre lì stiamo) gli operai di un’importante fabbrica di locomotive iniziano una protesta perché, proprio mentre gli viene chiesto il sacrificio di aumentare i carichi e gli orari di lavoro per incrementare la produzione, crescono i prezzi imposti dei beni di prima necessità, diminuendo di fatto il potere di acquisto dei loro salari. L’incapacità dei dirigenti di risolvere o contenere la situazione sfocia nel violento sciopero del giorno successivo, che verrà represso nel sangue dall’esercito e dai cecchini del KGB appostati proprio sotto il tetto della fabbrica. Saranno ventisei i morti e quasi novanta i feriti (ma il film lascia intendere che siano stati molti di più); il sangue sparso per le strade sarà talmente tanto che si dovrà ricorrere a un’immediata riasfaltatura per farlo sparire.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Dopo la parentesi “italiana” de Il peccato. Il furore di Michelangelo, Konchalovsky torna a guardare alla storia recente della Russia, quando era ancora Unione Sovietica, scegliendo di raccontare la tragedia di Novocherkassk attraverso il personaggio di Lyudmila (a cui dà corpo e anima Yulia Vysotskaya), rigida funzionaria di partito, che propone il pugno duro sui manifestanti, ma che vede sgretolarsi le sue convinzioni quando la figlia risulterà dispersa nella repressione della rivolta. Lo sguardo di Konchalovsky è limpido, preciso, quasi chirurgico e si muove in modo naturale, quasi impercettibile, tra i diversi registri che sono necessari allo sviluppo drammaturgico del film. Si parte con la tragicomica rappresentazione dei dirigenti di partito che non riescono a uscire dall’impasse, più entimematica che logica, dell’analisi della situazione («Com’è possibile che qualcuno scioperi in un paese comunista?») e che, quando nella loro stanza iniziano ad arrivare i sassi lanciati dagli operai, si danno alla fuga in una gerarchicamente ridicola fila indiana nelle fogne della fabbrica. A questa segue la fredda, geometrica, razionale messa in scena dell’assemblea tenuta dai vertici militari con le autorità cittadine per avere il quadro della situazione e decidere come intervenire.

Quindi l’efficace, quasi hollywoodiana, sequenza della strage, che lascia il passo a una tensione hitchcockiana nella tragica ricerca della figlia da parte della protagonista, per arrivare a un finale che più che una citazione è un omaggio al cinema e alla classica iconografia sovietica degli anni Trenta e Quaranta. Il tutto intervallato da lampi di realismo sulla quotidianità della stessa Lyudmila (l’amante, il lavoro, il rapporto con la figlia e con il padre…) e da una continua messa in abisso dell’immagine con porte, finestre e cornici che ingabbiano i personaggi resi ottusi da una visione fideisticamente e anacronisticamente ortodossa del “partito”. Gabbie da cui Lyudmila si libera man mano che la sua angoscia per la figlia cresce e le sue solide convinzioni staliniste iniziano a vacillare fino a prendere coscienza della gravità di ciò che è successo e che lei stessa ha contribuito a far succedere.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Qui Konchalovskij appare come una sorta di Clint Eastwood della Russia contemporanea; sebbene sia nota la sua appartenenza politica e oltretutto scelga di raccontare un episodio “caro” alla nuova retorica putiniana, non si avvertono disturbanti echi propagandistici. Anzi proprio nella rappresentazione di un certo potere, dei suoi volti duri, dei suoi corpi rigidi, delle sue divise perfette e inamidate, si riconosce la pericolosità a cui vanno inevitabilmente incontro tutte quelle linee politiche che non ammettono critiche e tanto meno opposizion,; mentre, d’altro canto, si percepisce chiaramente il rammarico per lo spreco di ideali giusti in una storia che sarebbe potuta e avrebbe dovuto essere diversa. Tutte cose che rendono Dorogie Tovarischi! uno dei migliori film visti in laguna e che spingono a pensare che, in una Mostra dove i due premi principali sono stati “sospettosamente” destinati a opere con molta probabilità transfughe da Cannes e il Premio alla regia è apparso più un riconoscimento alla carriera di Kiyoshi Kurosawa che agli effettivi meriti del film, il suo Premio Speciale della giuria alla fine valga molto di più di quel che sembra. Ma si sa, “a pensare male si fa peccato”.


Dorogie Tovarischi! (Cari compagni!)
cast cast & credits
 



Il regista Andrej Konchalovskij

 
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