Presentato in concorso
alla 77° Mostra darte cinematografica
di Venezia, dove non è riuscito a rientrare nel
palmarès stabilito dalla giuria di Cate Blanchett, lultimo film di Gianfranco
Rosi arriva a distanza di sette anni da quel Sacro GRA vincitore del Leone doro (il primo documentario a ottenere
tale riconoscimento) e a quattro dal tanto discusso Fuocoammare, premiato al Festival internazionale del cinema di Berlino
con lOrso doro.
Come nella tradizione
etnografa del regista, Notturno
è stato girato nellarco di tre anni nelle zone di confine tra Siria, Libano,
Iraq e Kurdistan, con lobbiettivo di (rap)presentare i devastanti effetti
(senza escludere un simbolico accenno alle cause) delle complesse, sanguinolente
guerre che attanagliano il Medio Oriente da decenni. Al solito, Rosi segue la
quotidianità di un gruppo di individui desiderosi di (ri)trovare la normalità in
un presente difficile: madri che hanno perso i figli, figli che hanno perso le
madri, una maestra che affronta i traumi degli alunni, un cacciatore di anatre,
un gruppo di guerrigliere curde, una coppia di futuri sposi, soldati di
frontiera, prigionieri nellora di svago, un ospedale psichiatrico e il suo
programma di teatroterapia, un ragazzo che lavora a giornata per aiutare la
famiglia. Una scena del film © Biennale Cinema 2020
Ormai è noto il modus operandi di Rosi: questa sua
ultima “sintetica” fatica, a detta sua anche particolarmente “pericolosa”, ne
potenzia gli intenti evidenziando per tutta la sua (breve) durata la meticolosa
ricerca poetica. Contro lingannevole e asettico spettacolo dellamatoriale
sociale e digitale, capace ormai di trasformarsi in immaginario collettivo più
dei media “tradizionali” (anche più della televisione e della sua sbandierata reality), il regista rivendica continuamente
la “magia tecnica” della macchina cinematografica, il potere immaginifico e
illusorio di un occhio che rende eterni, che incanta e si lascia incantare, uno
«strumento per ripensare il mondo attraverso lo sguardo» (S. Bernardi,
Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia,
Marsilio, 2002, p. 17). E questo ben consapevole non solo che qualsiasi
forma di rappresentazione sarà pur sempre lontana dalla realtà (tantomeno dalla
verità), ma anche del rischio che lo spettatore più cinico non si lasci trasportare
dalleuforia di unimmagine perfettamente composta e ben assestata.
A differenza di altri
grandi autori del documentario italiano (uno su tutti, Franco Maresco con la sua comicità grottesca e
sporca), Rosi non rinuncia alla possibilità di enfatizzare e nobilitare ogni
piccolo dettaglio emotivo o movimento di camera studiato e impostato nelle
frasi preparative. Moltiplica i punti di vista, si avvicina e si allontana dai
protagonisti della sua selezione umana e ideologica (la pulizia di una
mitragliatrice, i prigionieri che escono in cortile), incede nel primo piano
quando la situazione sembra esigerlo con forza (il racconto traumatico di un
bambino che ha conosciuto la brutalità dellISIS), cristallizza la percezione
del tempo cogliendo le pause del quotidiano (la caccia allanatra, la noia dei
posti di blocco, il narghilè degli amanti) e amplifica lesperienza
estetizzante di un paesaggio contaminato da un passato che non passa mai e che
si rinnova in altre versioni di sé stesso. In particolare è proprio lo spazio a
essere perno concettuale su cui Rosi fa ruotare il resoconto della sua
esperienza: dallaver reso il Medio Oriente ununica regione astratta e senza
confini, talvolta portando lo spettatore a confondersi sulle varie posizioni
geografiche, al sottolineare il vuoto del deserto, cassa di risonanza per i
rumori lontani degli scontri armati e veicolo senza interferenze delle loro
luci (un po come era il raccordo anulare per i fari delle automobili in Sacro GRA o il mare per i
lanciarazzi in Fuocoammare).
Una scena del film © Biennale Cinema 2020
Purtroppo al termine di Notturno è forte la sensazione che
a Rosi sia sfuggito dalle mani qualcosa della complessità del tema trattato. In
questa serie di perfetti quadri fotografici (perché, in sostanza, questo sono)
non emerge nemmeno quellunica pirandelliana linea narrativa che, tra i tanti
effetti mostrati, porta avanti un accenno alle cause e alla percezione locale
della questione (il riferimento è allo spettacolo teatrale inscenato per e con
i pazienti dellospedale pediatrico). Così ci si chiede quale sia il motivo di
tanto attento vagare: cosa possa aggiungere il film rispetto a quello che è già
stato detto e visto (anche in forma di finzione). Forse la risposta è da
trovare allinizio, quando il regista dona al lamento di una madre, sola tra le
macerie della prigione in cui il figlio è stato brutalmente torturato, la
consapevolezza che larte cinematografica farà conoscere il suo dolore a tutti
coloro che stanno guardando. Se ciò sia sufficiente o meno, lo potrà stabilire
solo il singolo spettatore.
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