Nella
giungla al confine tra Messico e Belize una donna di nome Agnes (Indira
Rubie Andrewin) è ferita e in fuga, braccata come una lepre da un uomo
inglese di cui ha probabilmente rifiutato le avances. Viene ritrovata
priva di sensi da un gruppo di estrattori di gomma dagli alberi. Questi,
sottopagati da un onnipresente padrone tiranno, sembrano intimoriti ed
estasiati allo stesso tempo da “quelloscuro oggetto del desiderio” che non
parla la loro lingua. Lentrata in scena della donna sarà la causa della loro
progressiva trasformazione in selvaggi dissoluti e avidi. Una voce narrante
accompagna la visione con dissertazioni filosofiche sulla natura che rimandano
alla fatale Xtabay, figura femminile appartenente alla mitologia Maya.
Una scena del film
© Biennale Cinema 2020
Tra
il documentario e la finzione, Selva trágica incede con un ritmo scrupolosamente
ponderato, come i passi degli uomini guardinghi tra le fronde attenti a non far
rumore, a non guardarsi indietro, a non lasciare tracce, anchessi braccati
dagli inglesi in cerca della gomma che trasportano. Il loro destino sembra
pendere dalle labbra e dai sinuosi movimenti di Agnes, vendicativa spada di
Damocle vivente. Lintento della regista, qui anche in veste di sceneggiatrice,
è quello di trasporre sullo schermo il mistero della natura profonda,
inaccessibile, restituendo unatmosfera primordiale anche grazie alla
straordinaria direzione della fotografia della connazionale Sofia Oggioni,
capace di “sottomettere al proprio volere” ogni raggio di sole o di luna
filtrante fra la fitta vegetazione, nonostante le inevitabili difficoltà del
caso (filmare in studio è un conto, nella giungla è un altro: chiedere a Francis
Ford Coppola). Anche la selva si fa entità superiore in grado di “ascoltare”:
di dare ma anche di togliere. Una natura rappresentata in forma amena, che
ricorda quella di The New World (2005) di Terrence Malick, ma
anche quella messaggera di morte raccontata da Werner Herzog in Aguirre,
der Zorn Gottes (1972).
Una scena del film
© Biennale Cinema 2020
Le
falle nella pellicola riguardano alcune superficialità nella scrittura, come i
personaggi maschili troppo stereotipati nei ruoli e un eccessivo mistero legato
agli avvenimenti, causa di svariati anacronismi: si veda anche limpossibilità
di inquadrare le vicende in un preciso contesto storico. In aggiunta, il
racconto non riesce a suscitare empatia nello spettatore. Inesorabilmente nella
seconda parte il film precipita verso una narrazione metaforica, astratta, che
oltre alle atmosfere ricostruite prova ad aggrapparsi con le unghie alla figura
dellumiliata e offesa Agnes (nome che deriva dallaggettivo greco hagnós,
“puro”). La giovane compie un processo di immedesimazione con la natura stessa,
trasformandosi nel finale in Xtabay, una sirena omerica che ammalia, attrae e
punisce. Tra sparatorie, stupri e allucinazioni assistiamo a una proiezione a
suo modo originale. Il coraggio cè, la messinscena pure. La scrittura meno.