Tra
le dimenticate rocce del deserto, una manciata di operai prova a sopravvivere
alla crisi che ha colpito il loro settore. Uomini, donne, bambini al servizio di
una fabbrica di mattoni sullorlo del fallimento, dimenticati dalla società.
Non cè posto neppure per il più flebile dei colori in Dashte Khamoush (Wasteland) del regista iraniano Ahmad Bahrami, opera cruda e dura che non lesina
nel mettere in scena laridità di una vita di stenti e larroganza di chi se ne
approfitta per il proprio tornaconto.
Costruito
secondo una struttura per la prima metà ciclica e per la seconda fatalmente
lineare, il film ritrae le vite, le sofferenze e le speranze di uomini e donne
semplici, costretti ad affidarsi alle promesse di un proprietario (Farrokh
Nemati) che senza indugio propina loro menzogne e falsità per tenerli al
giogo. Al centro di questo piccolo, desolante mondo cè Lotfollah (Ali
Bagheri), quarantenne nato e cresciuto in quella fabbrica: uomo di fiducia
del padrone è melanconicamente innamorato di Sarvar (Mahdieh Nassaj), mal
vista dagli altri per le sue fughe notturne coperte proprio dal povero
Lotfollah. La realtà è che Sarvar è da anni la seconda moglie del padrone, che
la reclama al suo talamo ogni volta che la prima è assente.
Una scena del film © Biennale Cinema 2020 La triste e dura routine di questi lavoratori ci viene mostrata nei primi minuti del film senza enfasi né iperboli attraverso una struttura a quadri ciclica – forse eccessivamente didascalica, a tratti simbolica – che trae però forza proprio dalla ripetizione di alcune scene decisive. In particolare, lannuncio della chiusura della fabbrica viene ripreso più volte, assumendo un tono via via perentorio: è lineluttabile fine di un mondo per Lotfollah e compagni, dopo il quale cè solo il vuoto. La seconda metà del film diventa allora uninesorabile parabola discendente verso lannichilimento. Non resta che labbandono delle abitazioni, le separazioni e il mesto ritorno ai villaggi. Solo Lotfollah rimane fino alla fine, perché nientaltro conosce o possiede al di là di quel luogo e del suo vano amore per Sarvar, che a sua volta non ha altra scelta se non quella di seguire il padrone e marito in città. La notte cala e Lotfollah vaga senza scopo tra le decadenti costruzioni della fabbrica, proiezioni degli spettri che agitano il suo animo: con calma metodica, mattone dopo mattone, si seppellisce dentro il forno mortale. Senza stridori né urla è la fine di una fabbrica e di un uomo che non ha mai potuto conoscere altro e per il quale un apparentemente banale passaggio di proprietà diviene la cancellazione di ogni certezza.
Una scena del film © Biennale Cinema 2020 Il crepuscolare bianco e nero di una fotografia curata nelle inquadrature ed estremamente dolce nei movimenti richiama in parte gli stilemi neorealisti, ma anche le opere di un grande maestro come Béla Tarr, il quale, proprio come Bahrami, non ha mai addolcito la pillola, esplorando microcosmi in cui lo sfruttamento economico si lega inevitabilmente a un vuoto esistenziale. Se lo stile è pulito ed elegante, la critica è feroce: lisolamento e labbruttimento con cui gli operai vengono soggiogati sono di per sé terribili, ma ancor di più lo è la superficialità con cui il loro mondo viene distrutto. Il mattone non vende più, la crisi è irrecuperabile; ma fino alla fine questi uomini vengono spremuti. Solo dopo aver chiesto lultima goccia, ce ne si dimentica e su di loro, come sul film, cala loscurità. Lotfollah, con il suo gesto estremo, diviene muto martire di un popolo di vittime invisibili, che solo la macchina da presa, con la discreta e attenta regia di Bahrami, riesce a mostrare.
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