Nel catalogo di questa 77a
edizione della Mostra di Venezia Arab e Tarzan Nasser affermano
che per meglio comprendere gli effetti quotidiani della questione palestinese
bisogna osservare quanto «le situazioni più semplici possano rivelarsi
estremamente complicate». Anche alla luce del loro primo (precedente)
lungometraggio di finzione, in cui si rifletteva sulla condizione femminile
attraverso le vicende di un salone di bellezza (alla stregua di quel Caramel,
2007, della regista libanese Nadine Labaki), tale osservazione viene
assunta dai due giovani registi palestinesi a vero e proprio fulcro
drammaturgico su cui sviluppare un racconto. Un escamotage che consente di approdare sui territori classici di una
commedia intelligente e, politicamente parlando, precisa e penetrante come una
freccia ben assestata.
Una scena del film © Biennale Cinema 2020
Issa
(Salim Daw) è un pescatore celibe di sessantanni che trascorre il suo
tempo tra il mare e il mercato dove vende il pesce. È segretamente innamorato
della sarta Siham (Hiam Abbass), vedova e madre di un giovane
studentessa divorziata (Maisa
Abd Elhadi). Da sempre la sorella (Manal Awad) vorrebbe per lui
un buon matrimonio di convenienza, ma Issa non ne vuole sapere, anche a causa
delle ferite di una delusione damore subita in giovinezza. Durante una
sessione notturna di pesca rinviene nella rete unantica statua greca del dio Apollo e decide di
nasconderla a casa sua. Quando la polizia di Hamas scopre lesistenza del
tesoro, per Issa iniziano i problemi.
La tenera storia damore
di Gaza Mon Amour viaggia sui binari rassicuranti della semplicità,
sebbene emergano sullo sfondo le attuali, soffocanti tensioni politiche e
culturali di Gaza (attraverso il vociare indistinto dei programmi televisivi dattualità,
la concezione retrograda delle soap opera,
lallusione alla severa intransigenza di Hamas e al sogno dellEuropa). Il “pomposo”
titolo del film è un palese richiamo a Hiroshima Mon Amour (1959):
una citazione che (per fortuna) rimane confinata nelluniverso degli omaggi
cinefili, anche se il riferimento allirraggiungibile capolavoro di Alain Resnais potrebbe rimandare per analogia al modo in cui certe relazioni
subiscono (esplicitamente o implicitamente) la pesante ombra di una guerra,
passata o presente.
Una scena del film
Il realismo di Gaza
Mon Amour, tipico dellaffascinante, duraturo rinascimento del cinema
medio-orientale, si inserisce alla perfezione in quella linea concettuale già
intrapresa di recente da opere come il divertente Tutti Pazzi per Tel Aviv
(Sameh Zaobi, 2018) o lintenso Sarah e Saleem - Là dove nulla è
possibile (Muayad Alayan, 2018). In particolare, in questultima
pellicola sono analizzati i possibili risvolti tragici (vagamente
shakespeariani) di un adulterio con al centro due persone appartenenti a nazioni differenti.
Ma latto di denuncia dei
fratelli Nasser non risiede solo nella potenza salvifica di ununione tra una
coppia di individui che, dopo aver vagato a lungo nella solitudine (per scelta
o per fatalità), rivendicano il proprio (e il nostro) diritto di amare,
ottenendo finalmente la grazia insperata di un contatto umano. Come in Chiamami
con il tuo nome di Luca
Guadagnino (2017), il ritrovamento della sensuale-sessuale statua del dio
Apollo è il punto di forza comico (e, in un certo senso, drammatico) di Gaza
Mon Amour, lorizzonte ideologico verso cui il film vuole dirigersi, la
“bussola” attraverso la quale smascherare le grandi contraddizioni e ipocrisie
di un paese dimentico del tempo in cui «il mare era ancora pulito ed infinito».
|
|