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La forza della fragilità

di Nicola Rakdej
  Molecole
Data di pubblicazione su web 03/09/2020  

«Dal fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuto, un soffio oscuro risaliva verso di me attraverso annate che non erano ancora venute» (A. Camus, Lo Straniero). Una delle conseguenze più manifeste e (in)tangibili del lockdown è stata lo spiccato bisogno delle persone di raccontare per immagini quello che stavano vivendo e – soprattutto – come lo stavano affrontando. A questo non può che aver contribuito l’era fluida dei social network, la cui primaria regola d’accesso (escludendo la vanità) è quella di condividere la rappresentazione visiva del proprio stato emotivo e del proprio movimento quotidiano nell’atto stesso del loro divenire. L’essere umano, che è stato e sarà sempre un essere narrativo, sente la necessità di segnalare al mondo la sua esistenza, di trovare uno spazio all’interno della Storia come se questo fosse l’unico modo per riuscire a comprendersi in quanto soggetto individuale e collettivo. 

E nell’infinità di questo mare di parole e immagini si inserisce l’arte con la sua innata capacità di sopravvivere e rendere immortale tutto ciò che tocca, indipendentemente dai possibili giudizi qualitativi che possono nascere in seguito alla sua fruizione (in certi casi, con buona pace del lato più cinico della critica, è più interessante focalizzarsi sulle cause che sugli effetti). In particolar modo, aiutato anche dall’ambiguo rapporto di amore e odio con la televisione e lo streaming, è il cinema a essere stato eletto come uno dei compagni principali di questo oscuro viaggio, sebbene anche la grande e onnipresente industria della settima arte sia stata costretta a chiudere i battenti, a rimandare a data da destinarsi il suo naturale esistere nelle sale. Anche in seguito alle sue mille trasformazioni e il suo vivere costantemente in bilico tra fallimento e successo, la macchina cinematografica riesce ancora oggi a trascinarci senza fatica nella sua giocosa e tentacolare illusione, nelle sue gioie violente di cui non possiamo fare a meno.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

In attesa di vedere i grandi (in termine di budget) progetti in cantiere che ruoteranno intorno alla pandemia, dalla visione italiana di Gabriele Muccino e Gabriele Salvatores fino a quella americanissima prodotta dall’improbabile Michael Bay, tutto quello che si è potuto vedere nei mesi scorsi pare legato dallo stesso filo conduttore: rendere il particolare (anche di finzione) alla stessa stregua dell’universale, parlare della collettività attraverso la specificità individuale. Questo è il chiaro risultato della condizione che la maggior parte del mondo ha vissuto (e sta vivendo): sentirsi parte di qualcosa di più grande (anche se non felice) pur rimanendo isolati all’interno delle quattro ma sicure mura di casa. Tra i progetti più interessanti c’è stata la serie antologica Netflix Homemade, una collezione di cortometraggi casalinghi voluta dal regista cileno Pablo Larraín contenente uno spassoso contributo del nostro Paolo Sorrentino (suo l’episodio che ipotizza una relazione segreta tra papa Francesco e la regina Elisabetta II, interpretati da due statuine dell’odierno presepe napoletano). 

Ma senza alcun indugio è Molecole, il piccolo documentario diretto da Andrea Segre, a essere a oggi il racconto più potente in termini emozionali (almeno tra le produzioni italiane). Tralasciando il fatto che il regista veneto – nello specifico, di Dolo – ha confermato la sua presenza nel panorama cinematografico proprio sul Lido, non è un caso che il film sia stato voluto dal direttore artistico Alberto Barbera come pre-apertura simbolica di questa 70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, edizione già storica proprio perché nata sotto il segno del Covid-19.

Epicentro di Molecole è una data simbolo, il 25 febbraio 2020. Quello che a cose normali sarebbe stato un carnevalesco Martedì Grasso si è rivelato l’ouverture delle misure di sicurezza che hanno portato alla chiusura dell’Italia nei primi di marzo. Come racconta lo stesso Segre in un costante, amalgamante voice-over del quale, per la breve durata del racconto, si possono perdonare in parte la pochissima verve interpretativa e qualche sporadica caduta retorica, la sua idea iniziale era quella di realizzare un documentario sui due grandi “nemici” di Venezia: il sovraffollamento generato dal turismo e l’innalzamento del livello del mare. Negli intenti Molecole poteva essere considerato un’ideale seguito del precedente documentario Il pianeta in mare (2019), viaggio nel tempo passato e presente del vicinissimo porto di Marghera e del suo gigantesco apparato industriale. Ma a causa della pandemia il processo creativo ha subito un’obbligata deviazione verso un altro tipo di riflessione più intima.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020 

Non troppo distante dai temi cari al cineasta (in primis, i flussi migratori in Italia), il film è una lunga, intensa lettera d’addio al padre, il fisico Ulderico Segre, studioso delle molecole con un solo elettrone (in particolare sui motivi per cui si cercano e si accoppiano) scomparso recentemente per un attacco cardiaco. Quindi, se nella prima parte troviamo il girato pre-Covid-19, con vari personaggi interpellati per discutere dell’invasione turistica (dai vecchi pescatori ai giovani vogatori), nella seconda emerge con grande forza la commozione di un figlio che vuole risolvere il grande mistero di questa «vita assurda» (il film si apre con la citazione da Camus), interrogandosi e interrogando ripetutamente i video amatoriali che il genitore aveva realizzato in gioventù con una piccola Super 8 (tutti ambientati a Venezia, meta preferita delle vacanze in casa Segre).

Quello che può sembrare un cambio di rotta repentino, macchinoso e poco conforme, è in realtà la dimostrazione di come si possa trasformare in virtù una necessità quando alla base fermenta una sfrenata voglia di ri-emergere dal dolore. Mentre la linea narrativa dedicata alle maree viene spezzata in corso – e questo è il difetto più grande e fastidioso nell’economia generale del film – l’indagine sulla frustrazione dei veneziani confluisce alla perfezione nella fantasmagoria messa in scena dei filmati ritrovati. 

Nel percorso artistico di Segre, soprattutto nella trilogia di finzione (Io sono Li, 2011, La prima neve, 2013, e L’ordine delle cose, 2017), è costante il rispecchiamento tra l’individuo e l’ambiente circostante, tra il mondo fuori e il mondo interno, soprattutto quando smettono di coincidere mutando verso strade divergenti. In questo caso lo svuotamento di Venezia, dal significato ambivalente per chi ci abita da sempre e non solo, diventa metafora del vuoto e del silenzio ereditato dalla morte di una persona cara. Ma in quella precisa situazione, tra la fitta nebbia del non sapere, Segre intravede la certezza che gli affetti siano come le molecole, non visibili all’occhio umano ma onnipresenti nel ricordo e nelle generazioni che seguiranno. E in questo modo, conscio anche del fatto che solo l’arte può rendere immortali, il racconto personale del regista si fa sia strumento terapeutico sia cornice di un messaggio più ampio di speranza, capace di insinuarsi senza troppa fatica nel singolo spettatore e rinnovando la consapevolezza (e la partecipazione) di quel “tutto” a cui siamo necessariamente legati.




Molecole
cast cast & credits
 



Il regista Andrea Segre


 
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