«Dal
fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuto, un
soffio oscuro risaliva verso di me attraverso annate che non erano ancora
venute» (A. Camus, Lo Straniero). Una delle conseguenze più manifeste e
(in)tangibili del lockdown è stata lo
spiccato bisogno delle persone di raccontare per immagini quello che stavano
vivendo e – soprattutto – come lo stavano affrontando. A questo non può che
aver contribuito lera fluida dei social network, la cui primaria regola
daccesso (escludendo la vanità) è quella di condividere la rappresentazione
visiva del proprio stato emotivo e del proprio movimento quotidiano nellatto
stesso del loro divenire. Lessere umano, che è stato e sarà sempre un essere narrativo,
sente la necessità di segnalare al mondo la sua esistenza, di trovare uno
spazio allinterno della Storia come se questo fosse lunico modo per riuscire
a comprendersi in quanto soggetto individuale e collettivo.
E nellinfinità di
questo mare di parole e immagini si inserisce larte con la sua innata capacità
di sopravvivere e rendere immortale tutto ciò che tocca, indipendentemente dai
possibili giudizi qualitativi che possono nascere in seguito alla sua fruizione
(in certi casi, con buona pace del lato più cinico della critica, è più
interessante focalizzarsi sulle cause che sugli effetti). In particolar modo,
aiutato anche dallambiguo rapporto di amore e odio con la televisione e lo streaming, è il cinema a essere stato
eletto come uno dei compagni principali di questo oscuro viaggio, sebbene anche
la grande e onnipresente industria della settima arte sia stata costretta a
chiudere i battenti, a rimandare a data da destinarsi il suo naturale esistere
nelle sale. Anche in seguito alle sue mille trasformazioni e il suo vivere
costantemente in bilico tra fallimento e successo, la macchina cinematografica
riesce ancora oggi a trascinarci senza fatica nella sua giocosa e tentacolare
illusione, nelle sue gioie violente di cui non possiamo fare a meno.
Una scena del film © Biennale Cinema 2020
In
attesa di vedere i grandi (in termine di budget) progetti in cantiere che
ruoteranno intorno alla pandemia, dalla visione italiana di Gabriele Muccino
e Gabriele Salvatores fino a quella americanissima prodotta
dallimprobabile Michael Bay, tutto quello che si è potuto vedere nei
mesi scorsi pare legato dallo stesso filo conduttore: rendere il particolare
(anche di finzione) alla stessa stregua delluniversale, parlare della
collettività attraverso la specificità individuale. Questo è il chiaro risultato
della condizione che la maggior parte del mondo ha vissuto (e sta vivendo):
sentirsi parte di qualcosa di più grande (anche se non felice) pur rimanendo
isolati allinterno delle quattro ma sicure mura di casa. Tra i progetti più
interessanti cè stata la serie antologica Netflix Homemade, una collezione di cortometraggi casalinghi voluta
dal regista cileno Pablo Larraín contenente uno spassoso contributo del
nostro Paolo Sorrentino (suo lepisodio che ipotizza una relazione
segreta tra papa Francesco e la regina Elisabetta II, interpretati da due
statuine dellodierno presepe napoletano).
Ma senza alcun indugio è
Molecole, il piccolo
documentario diretto da Andrea Segre, a essere a oggi il racconto più
potente in termini emozionali (almeno tra le produzioni italiane). Tralasciando
il fatto che il regista veneto – nello specifico, di Dolo – ha confermato la
sua presenza nel panorama cinematografico proprio sul Lido, non è un caso che
il film sia stato voluto dal direttore artistico Alberto Barbera come
pre-apertura simbolica di questa 70a
Mostra Internazionale dArte Cinematografica di Venezia, edizione già
storica proprio perché nata sotto il segno del Covid-19.Epicentro di Molecole è una
data simbolo, il 25 febbraio 2020. Quello che a cose normali sarebbe stato un
carnevalesco Martedì Grasso si è rivelato louverture delle misure di sicurezza che hanno portato alla chiusura
dellItalia nei primi di marzo. Come racconta lo stesso Segre in un
costante, amalgamante voice-over del
quale, per la breve durata del racconto, si possono perdonare in parte la
pochissima verve interpretativa e qualche sporadica caduta retorica, la sua
idea iniziale era quella di realizzare un documentario sui due grandi “nemici” di
Venezia: il sovraffollamento generato dal turismo e linnalzamento del livello
del mare. Negli intenti Molecole
poteva essere considerato unideale seguito del precedente documentario Il pianeta in mare (2019), viaggio
nel tempo passato e presente del vicinissimo porto di Marghera e del suo gigantesco
apparato industriale. Ma a causa della pandemia il processo creativo ha subito
unobbligata deviazione verso un altro tipo di riflessione più intima.
Una scena del film © Biennale Cinema 2020 Non troppo distante dai temi cari al cineasta (in primis, i flussi migratori in Italia), il film è una lunga, intensa lettera daddio al padre, il fisico Ulderico Segre, studioso delle molecole con un solo elettrone (in particolare sui motivi per cui si cercano e si accoppiano) scomparso recentemente per un attacco cardiaco. Quindi, se nella prima parte troviamo il girato pre-Covid-19, con vari personaggi interpellati per discutere dellinvasione turistica (dai vecchi pescatori ai giovani vogatori), nella seconda emerge con grande forza la commozione di un figlio che vuole risolvere il grande mistero di questa «vita assurda» (il film si apre con la citazione da Camus), interrogandosi e interrogando ripetutamente i video amatoriali che il genitore aveva realizzato in gioventù con una piccola Super 8 (tutti ambientati a Venezia, meta preferita delle vacanze in casa Segre). Quello
che può sembrare un cambio di rotta repentino, macchinoso e poco conforme, è in
realtà la dimostrazione di come si possa trasformare in virtù una necessità
quando alla base fermenta una sfrenata voglia di ri-emergere dal dolore. Mentre
la linea narrativa dedicata alle maree viene spezzata in corso – e questo è il
difetto più grande e fastidioso nelleconomia generale del film – lindagine sulla
frustrazione dei veneziani confluisce alla perfezione nella fantasmagoria messa
in scena dei filmati ritrovati.
Nel percorso artistico
di Segre, soprattutto nella
trilogia di finzione ( Io sono Li,
2011, La prima neve, 2013,
e Lordine delle cose, 2017),
è costante il rispecchiamento tra lindividuo e lambiente circostante, tra il
mondo fuori e il mondo interno, soprattutto quando smettono di coincidere
mutando verso strade divergenti. In questo caso lo svuotamento di Venezia, dal
significato ambivalente per chi ci abita da sempre e non solo, diventa metafora
del vuoto e del silenzio ereditato dalla morte di una persona cara. Ma in quella precisa
situazione, tra la fitta nebbia del non sapere, Segre intravede la certezza che gli affetti siano come le
molecole, non visibili allocchio umano ma onnipresenti nel ricordo e nelle
generazioni che seguiranno. E in questo modo, conscio anche del fatto che solo
larte può rendere immortali, il racconto personale del regista si fa sia
strumento terapeutico sia cornice di un messaggio più ampio di speranza, capace
di insinuarsi senza troppa fatica nel singolo spettatore e rinnovando la
consapevolezza (e la partecipazione) di quel “tutto” a cui siamo
necessariamente legati.
|
|