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Gianrico Tedeschi un attore grande

di Alessandro Tinterri
  Gianrico Tedeschi
Data di pubblicazione su web 06/08/2020  

Quando un attore muore, ad accompagnarlo sono i tanti personaggi interpretati nel corso della sua carriera, una folla di volti e di voci, una ridda di sensazioni e sentimenti, che, a ricordarli, tornano a emozionarci e a vivere in quella zona particolare della memoria degli spettatori, che inizia quando il sipario cala. Sentiamo allora che l’attore è più di un singolo, è la somma di tanti, e per quel bagaglio di ricordi, che ci lascia in eredità, noi gli siamo grati. Per questo noi amiamo gli attori. Quando poi ad andarsene, centenario, è l’attore Gianrico Tedeschi (Milano, 20 aprile 1920-Pettenasco, 27 luglio 2020), il lascito di rimembranze e di emozioni è talmente ricco che si fatica a costringerlo nella ristretta dimensione di un articolo, tali e tanti sono gli echi che suscita dentro di noi.

Eppure, a mettere ordine nella selva delle memorie che urgono e si affollano e premono, ci aiuta un libro bellissimo, denso di caldi ricordi, raccolti dalla figlia Enrica Tedeschi (Semplice, buttato via, moderno. Il “teatro per la vita” di Gianrico Tedeschi, postfazione di Luciano Zani, Roma, Viella, 2019), in una lunga conversazione, dipanatasi negli ultimi anni di vita del padre. È come se Cordelia avesse ritrovato il suo Lear rinsavito. Più che una biografia, una testimonianza, ma anche la chiave per capire come mai Tedeschi occupava un posto di riguardo nella scala degli affetti di noi spettatori. Abbiamo avvertito dietro i suoi personaggi l’uomo, la sua carica di umanità e di ironia, una leggerezza e una svagatezza sotto le quali si intuiva una profondità riflessiva mai esibita, e ne restammo affascinati. Questo libro, così diverso dalla tradizionale memorialistica di attore, ci permette oggi di precisare meglio quella nostra intuizione. A partire dal peso delle pagine in esso dedicate all’esperienza di vita di giovane ufficiale internato in un campo di prigionia tedesco, dopo l’8 settembre 1943, e sino alla fine della guerra, che costituiscono una giusta premessa per capire la complessità e il rigore dell’attore.

La sua vocazione teatrale scaturisce da quell’esperienza dolorosa, quando, interpretandolo in una squallida baracca del campo d’internamento, scoprì l’affinità tra la sua condizione di recluso e la lucida follia dell’Enrico IV pirandelliano. Ad anni di distanza, portandolo in palcoscenico, volle evocare quell’esperienza: «il teatro per la vita! In prigionia, recitare è stata la mia salvezza, mi ha permesso di sopravvivere. E ha dato speranza ai miei compagni, li ha distolti dalla disperazione. Nell’Enrico IV del 1994 ero attore e regista… Esattamente come accadeva nella baracca. Non so se è stato più impegnativo in baracca o in un teatro vero. Per fortuna nel ’94 c’era Siro Ferrone… lo conosci, no? Scrisse che Pirandello è un classico e come tale va trattato. Significa rispettarne i testi, che ormai tutti conoscono, e ai quali bisogna essere fedeli. Però dobbiamo anche concederci certe libertà, certe reinterpretazioni che rendano il suo messaggio comprensibile ai contemporanei. Bisogna evitare il “pirandellismo”, che è un esercizio scolastico, da manuale. Bisogna riappropriarsi del testo con la giusta libertà. Il virtuosismo è menzogna, mentre la libertà è verità». Enrica domanda a Gianrico: «La tua regia, di vero teatro e senza concessioni intellettuali, piacque a Ferrone?». E Gianrico risponde: «Lui era d’accordo su questo punto. Era un intellettuale, però si rendeva conto che il teatro è un’altra cosa, una cosa calda, in cui si muovono le passioni, non le idee, non i concetti. Infatti, guarda qui cosa scrive della mia regia: “Mi pare sia invece giusto quello che tu hai fatto, riproponendo il misto di debolezza e prepotenza, amore e paura della vita che sta alla base dell’autosegregazione di Enrico IV. Egli si è dimesso dal mondo perché quest’ultimo non lo merita, ma anche perché quel mondo gli si para davanti come un mistero angoscioso che lo terrorizza”».

Tra gli spettatori in quella baracca del lager c’erano Giovannino Guareschi e il poeta Roberto Rebora, il filosofo Enzo Paci ed Enzo de Bernart, fratello di Laura, la sua prima moglie e madre di Enrica. Tutti IMI (Internati Militari Italiani), che avevano rifiutato di ritornare in Italia aderendo alla repubblica di Salò, ma anche di lavorare per i tedeschi, una forma di collaborazionismo inaccettabile, rinunciando ai vantaggi connessi, soprattutto alimentari. Una diversa forma di resistenza, nel 2006 tardivamente riconosciuta con una medaglia d’onore, rifiutata da Tedeschi, pago di aver fatto il suo dovere. Solo Eduardo nella sua Napoli milionaria era riuscito a dar voce allo spaesamento di allora, quando nessuno aveva voglia di stare a sentire i reduci tornati a casa, come Primo Levi con Se questo è un uomo avrebbe fatto con i sopravvissuti dei campi di sterminio.

Sceso dal treno che lo aveva riportato a Milano dopo la prigionia, Tedeschi vide un manifesto che invitava a iscriversi alla nuova scuola d’arte drammatica, che Paolo Grassi e Giorgio Strehler avevano in animo di creare. Passò il provino recitando il monologo di Enrico IV, ma i tempi si facevano lunghi e la scuola non apriva, sicché bussò all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Silvio d’Amico e, dopo qualche peripezia, venne ammesso al secondo anno. Nel frattempo, aveva completato gli studi di Magistero, iniziati alla Cattolica di Milano e completati alla Sapienza di Roma. Come Franca Valeri, amica e compagna in arte, andava orgoglioso della sua origine milanese e credeva nell’idea di teatro come servizio pubblico, professata da Grassi e Strehler, che presiedette alla nascita del Piccolo Teatro di Milano, in quello stesso edificio di via Rovello, che, come via Tasso a Roma, aveva ospitato le carceri nazifasciste, dove venivano torturati i resistenti. Era la Milano di Antonio Greppi, primo sindaco socialista del dopoguerra, il sindaco della ricostruzione della Scala.

Talento versatile, capace di variare dal drammatico al comico, lui stesso amava definirsi un “promiscuo”, mutuando la definizione dal vocabolario ormai desueto del teatro d’antan. Ha recitato con tutti i registi: dall’«aristocratico» Luchino Visconti (Mirandolina «lui l’ha resa moderna, vera») all’«appassionato» Strehler («un vero teatrante, nel senso più alto del termine»), dal visionario Luigi Squarzina («intelligente, un grande intellettuale») al «severo» Luca Ronconi («uno fuori dagli schemi»), sino al primo, incontrato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, il maestro, Orazio Costa («lo studioso che era felice di condividere con i giovani la conoscenza»).

Registi che riportano alla memoria le tante interpretazioni, che abbiamo ammirato o anche solo sognato, leggendo le cronache, sfogliando gli album fotografici: alla fine degli anni Quaranta con lo stesso Costa al Piccolo Teatro della città di Roma. Per proseguire con una galleria di personaggi: dal Conte di Albafiorita della goldoniana Locandiera al Kulygin delle Tre sorelle di Čechov, entrambe regia di Visconti risalenti al 1952; dal Pantalone del goldoniano Arlecchino servitore di due padroni (1958) al Peachum de L’opera da tre soldi di Brecht (1973) con Strehler al Piccolo; dal capitano Shotover in Casa Cuorinfranto di Shaw (1980) al Cardinale Lambertini di Testoni (1981) all’Argentina di Roma ancora con Squarzina; sino a La compagnia degli uomini di Bond (2011), regia di Ronconi.

Per finire con un lungo addio alle scene, snocciolato attraverso una serie di spettacoli: dal Minetti, ritratto dell’artista da vecchio (2000) dell’amato e frequentato Thomas Bernhard a Le ultime lune (2000) di Furio Bordon, che era stato anche l’ultima interpretazione teatrale di Marcello Mastroianni («Marcello lo fece benissimo – dice con gli occhi che gli si arrossano. Lo recitò che stava già male. Mi ha colpito questo suo addio struggente alla vita dell’attore. Soprattutto perché sapeva di morire e non ha voluto chiudere col cinema, ma con il teatro. Non con le immagini, ma con la parola. Ha recitato fino all’ultimo respiro, penso si possa dire così. La verità è che ho accettato questo copione proprio come omaggio a Marcello. Eravamo veramente amici, abbiamo iniziato insieme. Al teatro Eliseo dividevamo il camerino e ci divertivamo da pazzi. Questa mia scelta di riprendere un “suo” spettacolo, sono certo che l’appoggerebbe»); da Smemorando, la ballata del tempo ritrovato (2005), scritto e interpretato dal medesimo Tedeschi, per la regia di Gianni Fenzi, sino all’ultimo Dipartita finale di Franco Branciaroli, nella parte di Pot, in scena da 2014 al 2016.

Attore eclettico frequentò anche, con ottimi risultati, la commedia musicale con Garinei & Giovannini (da La padrona di raggio di luna, 1956, a Enrico ’61) e il varietà televisivo (Bambole, non c’è una lira, 1977). Voce inconfondibile della radio, è stato anche interprete della stagione dei grandi sceneggiati e della prosa televisiva, divenendo uno dei volti più noti del piccolo schermo, a partire dalle generazioni di piccoli telespettatori, affezionati a Carosello (come non ricordare la pubblicità del cofanetto di caramelle Sperlari?). Il progetto pedagogico della televisione di Ettore Bernabei faticava a conciliarsi con le esigenze del mercato pubblicitario e con pudore misto a un po’ d’ipocrisia escogitò la formula, tutta italiana, di Carosello: due minuti di creatività artistica e trenta secondi in coda di messaggio pubblicitario. È in quella trasmissione, premio serale prima di andare a letto, che i bambini italiani hanno iniziato a familiarizzarsi con gli attori del tempo, prima di applaudirli a teatro o di riconoscerli al cinema.

Nel cinema ha tanto lavorato e, anche se talvolta le sue partecipazioni si esaurivano in un cammeo, è difficile dimenticare il suo Arcangelo Bardacci, maestro di mistica fascista, ne Il federale (1961) di Luciano Salce, protagonista un indimenticato Ugo Tognazzi, o la sua ultima apparizione in Viva la libertà (2013) di Roberto Andò nella parte di Furlan, il vecchio mentore del partito, cui si rivolge il disperato Valerio Mastrandrea, protagonista Toni Servillo nel doppio ruolo, degno discendente de I due gemelli veneziani di goldoniana memoria. Era lo stesso Tedeschi ad ammettere, senza particolare rammarico, di non avere mai sfondato nel cinema: «Il cinema è faticoso, ma poi cammina da solo, le repliche le fa la pellicola, non tu. Manca il rapporto col pubblico. È una cosa importante il rapporto col pubblico. Guarda, al cinema preferisco la televisione. Più simile al teatro». Racconta che Fellini lo avrebbe voluto nel suo film E la nave va, ma gli impegni teatrali gli impedirono di accettare quella scrittura: «Fa una smorfia alzando le sopracciglia. La nave è andata senza di me!».

«Semplice, buttato via, moderno» sono le istruzioni di Pantalone ai comici dell’Arlecchino servitore di due padroni, nell’edizione del 1973, un «soggetto» che piacque a Strehler al punto di inserirlo stabilmente nel copione dello spettacolo. Commenta Enrica Tedeschi: «Eri Pantalone, il capocomico, e davi istruzioni ai tuoi attori. Stavi spiegando come andava recitato quel canovaccio. Come volevi che risultasse la commedia. Davi un’indicazione di regia. La battuta va detta così, dovete recitare così: semplice, buttato via, moderno!. Non era verosimile che un guitto del Settecento suggerisse uno stile privo di enfasi, senza “recitazione”, senza impostazione, così come farebbe un attore “moderno”, in modo “semplice”, anzi, “buttato via”… Un’intuizione fantastica, una strizzatina d’occhio allo spettatore, un entrare e uscire dal testo che all’epoca era impensabile, una meta-comunicazione improbabile nel mondo goldoniano. Una chicca d’autore, una firma». La firma di Gianrico Tedeschi, la cifra del suo stile recitativo, un momento di vita teatrale, che ci riporta a un passo meta-teatrale, la scena seconda dell’atto terzo di Amleto, laddove Scespir (come amava dire lo stesso Tedeschi) si rivolge al suo pubblico per enunciare per bocca di Amleto i principi che devono ispirare un buon attore, gli stessi, che hanno guidato il moderno Tedeschi, un attore «semplice», «moderno», in una parola: «grande».



 



 
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