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Ne nos indúcas

di Giuseppe Gario
  Ne nos indúcas
Data di pubblicazione su web 17/04/2020  

«I Paesi che si sono opposti ai coronabond (versione aggiornata degli eurobond), meriterebbero di essere ringraziati. Hanno scoperto le loro carte e ci hanno detto con franchezza che l’Unione europea, per loro, non è e non deve diventare una federazione. Dovrebbe essere soltanto una confederazione di Stati sovrani che non intendono condividere le responsabilità di obbligazioni emesse da una Banca centrale per affrontare le conseguenze economiche di un grave problema sanitario. Forse dovrebbero spiegarci perché hanno accettato la moneta unica e permesso che la Commissione di Bruxelles gestisse la politica commerciale dell’intera Unione. Ma la coerenza non è la prerogativa degli Stati» (S. Romano, Federazione o confederazione? Se l'Europa perde il treno dell'unità, in «Corriere della Sera», 4 aprile 2020, p. 27). La coerenza gli Stati l’hanno avuta nel farsi guerra. Dopo l’apocalisse novecentesca, siamo finalmente in pace nell’UE, che con l’elezione diretta del Parlamento va verso un governo federale responsabile politicamente di preservare la pace in Europa, promuovendola a tal fine nel mondo. Ma gli Stati restano incoerenti e anche nella crisi globale di Covid-19, la peggiore dal dopoguerra, un piano comune per proteggere i più colpiti e preservare il mercato unico è ostacolato dall’entrata in gioco dei meccanismi nazionali: il rigore esiziale degli olandesi e la posizione per molti versi giusta italiana, di cui però molti non si fidano, dopo gli impegni non rispettati dal governo di allora nella crisi 2007-2013. L’Italia può rendersi credibile, ma l’Olanda nella sigla MES trova alleati Lega e Fratelli d’Italia che la demonizzano per mettere nell’angolo Giuseppe Conte nel ruolo di traditore della patria (cfr. M. Zatterin, editorialista de «La Stampa», a Radio3 Mondo, 8 aprile 2020, ore 11.00). 

Un gioco di specchi, anzi di specchietti in cui le troppe persone morte o rovinate nella crisi purtroppo sono e saranno vere, ma i morti non votano e i vivi possono essere manipolati (anche dalla malavita), perché «resta il fatto che abbiamo un anomalo rapporto tra grande debito pubblico e enorme ricchezza privata: 4.374 miliardi di attività finanziarie delle famiglie (contro 926 miliardi di passività), 1.840 miliardi di attività finanziarie delle società non finanziarie; contro 2.409 miliardi di debito pubblico» (Il banchiere, intervista di A. Cazzullo al presidente emerito di Intesa Sanpaolo G. Bazoli, in «Corriere della Sera», 4 aprile 2020, p. 17). Niente male, nel 2018 il prodotto interno lordo UE era 15.900 miliardi, il nostro 1.753. Siamo una nazione ricca in uno Stato povero.

Pure l’Olanda è ricca. «Tangenti, conflitti d’interesse, rapporti incestuosi tra imprenditori e politici, spartizioni e affari opachi. Sembrano le immagini sgranate dell’Italia di Mani Pulite, quella del 1992, e invece è l’Olanda di oggi», «dove le multinazionali hanno un peso che non ha pari nella Unione europea e dove le porte girevoli tra i due mondi sono all’ordine del giorno alimentando il rischio di conflitti di interesse giganteschi. Dalle multinazionali arrivano, per esempio, il premier Mark Rutte e il ministro delle finanze, Wopke Hoekstra. E forse non è un caso» (R. Galullo-A. Mincuzzi, Il dossier segreto che svela il sistema olandese, in «Il Sole 24 ore», 11 aprile 2020, p. 10). Non è un caso, da loro come da noi “It’s the economy, stupid!”, slogan vincente di Clinton nel 1992 e neoliberista bandiera atlantica: di stampo nordamericano nell’Olanda e a deriva sudamericana nell’Italia, perché «il capo del governo italiano sa che il margine di manovra è molto limitato, consapevole che senza il sostegno dell’Europa la situazione finanziaria italiana diventerà in breve insostenibile» (J. G., Italie: Conte doit jouer l’équilibre entre l’UE et les europhobes, in «Le Monde», 12-14 aprile 2020, p. 7).

Anche la Germania deve giocare d’equilibrio tra UE e eurofobi, ma c’è «il chiaro impegno di Angela Merkel in tedesco, inglese, italiano, francese e spagnolo sull’account twitter del suo portavoce venerdì 10 aprile»: «cinque tweet, in cinque lingue diverse, e un unico messaggio: “L’accordo dei ministri delle finanze dell’Eurogruppo è un elemento importante d’una risposta condivisa e solidale alla pandemia di Covid-19. È ormai possibile a tutti gli stati membri intraprendere la lotta contro la disoccupazione. I programmi devono essere attuati al più presto. Non possiamo superare questa crisi che insieme”». «Contrariamente a un’idea spesso diffusa all’estero, anche una larga maggioranza di tedeschi auspica l’aiuto finanziario europeo ai paesi più duramente colpiti dalla crisi, come la Spagna e l’Italia. In un sondaggio realizzato per la catena pubblica ZDF, e pubblicato il 9 aprile, il 68% degli intervistati è favorevole. Tra le varie categorie di elettori, solo quelli del partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) sono in grande maggioranza contrari (79%)» (T. Wieder, Comment Merkel tente de tirer les leçons de la crise de l’euro, ivi, p. 7).

Coi nostri sovranisti a fare gioco di squadra con Olanda e sovranisti tedeschi nel “tanto peggio tanto meglio” della non-politica, da noi «la questione del sostegno finanziario dall’Europa contro la crisi da coronavirus è diventata pura guerra di comunicazione. I fatti non contano più. Contano solo gli slogan. Se ne sono dette troppe sull’accordo raggiunto dall’Eurogruppo il 9 aprile e non resisto alla tentazione di chiarire un po’ di cose». «Nessuno ormai si preoccupa di spiegare all’opinione pubblica perché il Mes [meccanismo europeo stabilità, ndr] senza condizionalità (se non quella di spendere soldi) e a tassi di interesse sovvenzionati non andrebbe bene. Né ci si preoccupa di notare che, seppure lentamente, l’Unione europea si sta avviando a estendere le emissioni in comune di titoli pubblici, già in uso per Bei [Banca europea investimenti, ndr] e Mes, al finanziamento di altre iniziative (lo SURE, il fondo per la Ripresa). Non chiamateli eurobond perché al nordeuropa il termine fa venire l’orticaria, ma questo sono. Non posso chiudere senza ricordare di nuovo (repetita iuvant) un altro punto fondamentale. Per quanto utili le nuove iniziative di finanziamento concordate dall’Eurogruppo, il principale contributo al finanziamento del deficit italiano quest’anno ci verrà dalla Bce, con acquisti dell’ordine di 240 miliardi di titoli di stato italiani. Si tratta di ordini di grandezza enormi rispetto ai numeri sopra citati. Perché non lo si vuole riconoscere?» (C. Cottarelli, Un assurdo dibattito sui fondi del Mes. La condizione è spendere di più, non meno, in «La Stampa», 12 aprile 2020, p. 11).

Apparentemente opposti, i sovranismi sono tutti figli del nichilismo politico neoliberista, disastroso anche nell’anglosfera non più negazionista di Donald Trump e Boris Johnson, perché contro Covid-19 la sola arma è la solidarietà: «in diritto internazionale, s. di interessi, lo stesso che comunanza internazionale di interessi», vale a dire «rapporto esistente fra due o più stati quando la tutela degli interessi di uno giova alla tutela degli interessi dell’altro o degli altri» (www.treccani.it). Al di là dell’egoismo nazionale, la vera e propria idiozia politica del rifiuto neoliberista di solidarietà sta negli scarni numeri di «Le Monde Diplomatique» di aprile: nel 1980 in Francia aveva 11 posti-letto ospedalieri per mille abitanti, oggi 2,8; 7,9 nel 1970 gli USA, oggi 2,8; l’Italia per i casi severi ne aveva 922 ogni centomila abitanti nel 1980, 275 trent’anni dopo. Per attirare i capitali neoliberisti, gli Stati si sono suicidati svendendo la salute dei loro cittadini e tradendo ignobilmente ogni impegno di protezione e solidarietà.

Da sempre la geopolitica europea ammette solo l’alternativa solidarietà/guerra civile. «I sovranisti, con la “scusa” dell’immigrazione (problema serio ma esagerato strategicamente), vogliono distruggere l’Unione europea e sostituirla con tanti orticelli apparentemente sovrani ma in realtà alla mercé di Russia, Stati Uniti e Cina. Paesi europei relativamente piccoli finirebbero per combattersi fra loro in guerre commerciali, con tariffe, svalutazioni competitive, concorrenza fiscale. Un gioco a somma ampiamente negativa che abbiamo già sperimentato negli anni Venti e Trenta fra due guerre mondiali, e che ha prodotto un disastro» (A. Alesina-F. Giavazzi, Il secondo virus, in «Corriere della Sera», 4 aprile 2020, pp. 1, 32). Altro tratto costitutivo europeo è la piazza. «Oltre la mascherina, guardo la piazza, oggi». «Le nostre piazze ora sono spente. Ed ecco la mia sorpresa: quando guardo la piazza, oggi, dopo il primo smarrimento, non vedo più la desolazione, come i primi giorni. Vedo semplicemente e quietamente un vuoto disponibile: il vuoto di un tempo sospeso, ripulito dall’abituale e caotico affollamento, ma come in attesa di essere riempito in un modo nuovo. Un vuoto di attesa. Un’attesa vergine: che sconfina, quasi, con una promessa. Come se, incongruamente e improvvisamente, mi apparisse in nostro potere la fantasia di poter abitare la piazza come simbolo di comunità più visibile, di cittadinanza migliore» (P. Sequeri, Il vuoto “disponibile” che ci sta aspettando, in «Avvenire», 4 aprile 2020, p. 2).

 

Ne nos indúcas nel Padre nostro è tradotto “non ci indurre”, ora provvidenzialmente precisato in “non abbandonarci” alla tentazione, perché a mancarci non è la resilienza, ma l’intelligenza del nostro mondo unito tecnicamente e frantumato umanamente che ci fa dire, pregare “libera nos a malo”. «Libera nos amaluàmen. Non sono molti anni che il mio amico Nino s’è reso conto che non si scrive così. Gli pareva una preghiera fondamentale e incredibilmente appropriata: è raro che una preghiera centri così un problema. Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nel luamàri, così frequenti per i tuoi figlioli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago! Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia; del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei rastrellatori. Libera Signore i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno!» (L. Meneghello, Libera nos a Malo, Milano, BUR, 2006, p. 92).

«Nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente nel determinare il costume ciò che si chiamava l’intaresse, naturalmente in funzione della solidarietà familiare. Né le leggi dello stato né i precetti morali della religione avevano – nel modificare questo codice di condotta – la forza che aveva invece il senso del decoro (“no sta ben”), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione». «Il ladro di galline non è né onesto né disonesto, è un ladro». «Se è vero che nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente l’interesse, non bisogna però credere che fosse onnipresente. Inoltre se il lavoro era duro, e riempiva le giornate di ciascuno, non è detto però che isolasse l’individuo dal resto del paese; avveniva anzi il contrario. Badando ai propri interessi e al proprio lavoro, la gente si mescolava con la gente, attraverso una fitta serie di rapporti disinteressati. Era questa la sfera della nostra libertà paesana. Il lavoro stesso, le necessità della giornata, l’attendere alle proprie faccende, i brevi intervalli di riposo, il semplice andare fino in piazza a comprare, a portare qualcosa, a chiamare qualcuno, bastavano a mettere ciascuno a contatto con tutti. Non soltanto avevamo una persona pubblica, ma anche agivamo in pubblico. Buona parte di ciò che si faceva, era fatto davanti agli occhi di tutti, era conosciuto, valutato, commentato: apparteneva oltre che a noi, al paese. Qui non valeva più la legge severa della Necessità: si poteva improvvisare, scherzare, osservare come vivevano e scherzavano e improvvisavano gli altri; si partecipava con piacere e scherzavano e improvvisavano gli altri; si partecipava con piacere e disinteressatamente a una vita comune, e per solo effetto della comune appartenenza allo spazio pubblico del paese». «Le piazze e le strade erano la nostra agorà; la nostra lingua, a differenza di quella attica, non si scriveva, ma era ricca e flessibile, e con essa si riproduceva come in uno specchio di parole il quadro rallegrante di una vita fatta non solo di triboli, ma anche di incontri, di avventure, di capricci alati, di riflessioni, di liberi eventi» (ivi, pp. 104-107).

Libera nos a Malo in una comunità più visibile, una cittadinanza migliore, in Europa e nel mondo, passo dopo passo. «Mentre insegniamo le tecniche, dobbiamo insegnare anche il rispetto per la dignità e il carattere sacro della personalità umana. Se non vogliamo che la fine sia peggiore dell’inizio è necessario intraprendere un’azione urgente» (C.M. Cipolla, Uomini, tecniche, economiche, Milano, Feltrinelli, 19905, p. 142). «Lo scopo di questa formazione generale è l’uomo critico e tollerante, che col suo contegno dimostri di aver riguardo per i suoi simili e di possedere sensibilità per la comunità in cui vive e lavora. Solo con uomini simili si può costruire e mantenere una società libera e si può creare uno largo strato sociale capace di pensare ed agire politicamente, di trovare le vie giuste per l’esercizio del potere e di adoperarsi risolutamente per il nostro sistema di vita. Dal successo o dall’insuccesso dipende il destino dell’umanità» (F.O. Ruge, Politica e strategia, Firenze, Sansoni, 1969, p. 219). «Visione di un popolo che si autogoverna, formato da cittadini politicamente uguali e in possesso di tutte le risorse e istituzioni necessarie a questo scopo, rimarrà un ideale trascinante anche se impegnativo per la ricerca di una società in cui le persone possano vivere in pace, nel rispetto dell’uguaglianza intrinseca di ciascuno, cercando insieme la miglior esistenza possibile» (R.A. Dahl, La democrazia e i suoi critici, Roma, Editori Riuniti, 19972, p. 464).

Lo storico italiano Carlo M. Cipolla ci parla da Yale nel 1960, lo stratega ed ex ammiraglio tedesco Ruge da Francoforte nel 1967, il politologo americano Robert A. Dahl da Yale nel 1989, lungo un secolo in cui siamo stati indotti e abbiamo volonterosamente ceduto alla tentazione. Ora confidiamo di non esservi più abbandonati, qualcosa dovremmo avere compreso almeno in UE, eccezione nel mondo, per ora.






 
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