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Loach non accetta scuse

di Matteo Citrini
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Data di pubblicazione su web 29/01/2020  

Guidare sedici ore al giorno senza avere neppure il tempo di fermarsi a orinare per mantenere una famiglia. Conservare una famiglia nonostante le sedici ore al giorno passate al lavoro. Su questo circolo vizioso di crisi sociale ruota l’ultimo film di Ken Loach, spietato affresco di un proletariato inglese in cui la sopravvivenza economica non cessa mai di pesare sugli strati sociali più poveri.

La storia si apre con Ricky (Kris Hitchen), padre di famiglia come tanti, che accetta di lavorare come rider per la consegna di pacchi al domicilio. Al netto di una serie di opzioni vantaggiose, il supervisore chiarisce fin da subito come Ricky non sia un dipendente, ma un collaboratore autonomo: una formula che in breve si rivela nient’altro che una scappatoia burocratica per mascherare il depauperamento della manodopera e l’esenzione dai più elementari diritti. A fronte di nuove modalità di rapporto datore-lavoratore non cambiano, dunque, le secolari pratiche di sfruttamento; esacerbate a tal punto da costringere, in un finale quanto mai tragico, un Ricky insonne, malmenato e straziato a risalire sul furgone per iniziare l’ennesimo infinito giro di consegne.


Una scena del film
Una scena del film

Al suo fianco, la moglie Abby (Debbie Honeywood) non se la cava meglio come badante; lavoro che la obbliga a correre da una parte all’altra di Newcastle impedendole di seguire i figli Liza e Seb, quest’ultimo in piena crisi adolescenziale. Una famiglia che, per quanto volenterosa nel rimanere unita, si regge a malapena in piedi e i cui giorni felici sembrano essere inesorabilmente naufragati, come attesta il furioso atto “iconoclasta” con cui Seb deturpa le foto dei suoi cari in seguito a una violenta lite con il padre.

Intorno a loro, si anima un nugolo di personaggi e comparse che ritraggono la vita suburbana inglese: tirannici datori di lavoro, figli assenti che affidano i vecchi genitori a terzi, adolescenti in cerca disperata di modi per esprimersi. Senza contare i diversi “figuri” con cui Ricky si incontra/scontra nel suo lavoro: dal paffuto tifoso dello United (il cui diverbio risulta uno dei momenti più divertenti e leggeri del film) al nevrotico che si rifiuta di lasciare il proprio nome per paura dei “BigData”. Su tutti pesa un grande assente: lo Stato, colpevolmente abbindolato da nuove prospettive produttive (startup, self-franchising, tecnologie di tracciamento…) e dimentico dei più antichi diritti di cui dovrebbe essere garante.


Una scena del film
Una scena del film

Questo coacervo di storie e personalità che s’intrecciano sotto le esperte mani dello sceneggiatore Paul Laverty viene mostrato allo spettatore rifiutando qualsiasi orpello tecnico e stilistico: nessun accompagnamento musicale, nessun virtuosismo di macchina, nessuna accentuazione drammatica. Come da sua abitudine, Loach s’impone di rimanere il più possibile aderente al reale, di far trasparire uno spaccato del mondo così come è, nella sua purezza e durezza “oggettiva”. La macchina da presa cerca di scomparire, di collocarsi sempre nel luogo più discreto per non disturbare un’azione che si vuole spontanea, non ricercata. Il dramma non passa attraverso il primo piano, bensì si costruisce su piani medi e lunghi in cui le necessità, i desideri e le paure dei personaggi convergono tramite le vicissitudini quotidiane.

Con la sua consueta fermezza, ma anche con un pizzico di ironia (come si evince dal titolo che richiama il biglietto che Ricky deve lasciare quando non trova i destinatari in casa, evidente provocazione verso le classi dirigenti), Loach confeziona un film duro e ammonitorio nel mostrare come, dietro i lustri del cambiamento, si celino i soliti meccanismi di controllo. Una realtà rispetto a cui, come il giovane di Seb quando viene messo di fronte alle proprie azioni, fatichiamo a levare il capo per guardarla dritta negli occhi, e che proprio in questa “fatica” trova la sua maggior ragion d’essere.



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La locandina
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