Guidare
sedici ore al giorno senza avere neppure il tempo di fermarsi a orinare per
mantenere una famiglia. Conservare una famiglia nonostante le sedici ore al
giorno passate al lavoro. Su questo circolo vizioso di crisi sociale ruota lultimo film di Ken Loach, spietato affresco di un
proletariato inglese in cui la sopravvivenza economica non cessa mai di pesare
sugli strati sociali più poveri.
La
storia si apre con Ricky (Kris Hitchen), padre di famiglia come tanti, che
accetta di lavorare come rider per la consegna di pacchi al domicilio.
Al netto di una serie di opzioni vantaggiose, il supervisore chiarisce fin da
subito come Ricky non sia un dipendente, ma un collaboratore autonomo: una
formula che in breve si rivela nientaltro che una scappatoia burocratica per
mascherare il depauperamento della manodopera e lesenzione dai più elementari
diritti. A fronte di nuove modalità di rapporto datore-lavoratore non cambiano,
dunque, le secolari pratiche di sfruttamento; esacerbate a tal punto da
costringere, in un finale quanto mai tragico, un Ricky insonne, malmenato e straziato
a risalire sul furgone per iniziare lennesimo infinito giro di consegne.
Una scena del film
Al
suo fianco, la moglie Abby (Debbie Honeywood) non se la cava meglio come
badante; lavoro che la obbliga a correre da una parte allaltra di Newcastle impedendole
di seguire i figli Liza e Seb, questultimo in piena crisi adolescenziale. Una
famiglia che, per quanto volenterosa nel rimanere unita, si regge a malapena in
piedi e i cui giorni felici sembrano essere inesorabilmente naufragati, come
attesta il furioso atto “iconoclasta” con cui Seb deturpa le foto dei suoi cari
in seguito a una violenta lite con il padre.
Intorno
a loro, si anima un nugolo di personaggi e comparse che ritraggono la vita
suburbana inglese: tirannici datori di lavoro, figli assenti che affidano i
vecchi genitori a terzi, adolescenti in cerca disperata di modi per esprimersi.
Senza contare i diversi “figuri” con cui Ricky si incontra/scontra nel suo
lavoro: dal paffuto tifoso dello United (il cui diverbio risulta uno dei
momenti più divertenti e leggeri del film) al nevrotico che si rifiuta di
lasciare il proprio nome per paura dei “BigData”. Su tutti pesa un grande
assente: lo Stato, colpevolmente abbindolato da nuove prospettive produttive (startup,
self-franchising, tecnologie di tracciamento…) e dimentico dei
più antichi diritti di cui dovrebbe essere garante.
Una scena del film
Questo
coacervo di storie e personalità che sintrecciano sotto le esperte mani dello
sceneggiatore Paul Laverty viene mostrato allo spettatore rifiutando qualsiasi
orpello tecnico e stilistico: nessun accompagnamento musicale, nessun
virtuosismo di macchina, nessuna accentuazione drammatica. Come da sua
abitudine, Loach simpone di rimanere il più possibile aderente al reale, di far
trasparire uno spaccato del mondo così come è, nella sua purezza e durezza “oggettiva”.
La macchina da presa cerca di scomparire, di collocarsi sempre nel luogo più
discreto per non disturbare unazione che si vuole spontanea, non ricercata. Il
dramma non passa attraverso il primo piano, bensì si costruisce su piani medi e
lunghi in cui le necessità, i desideri e le paure dei personaggi convergono tramite
le vicissitudini quotidiane.
Con
la sua consueta fermezza, ma anche con un pizzico di ironia (come si evince dal
titolo che richiama il biglietto che Ricky deve lasciare quando non trova i
destinatari in casa, evidente provocazione verso le classi dirigenti), Loach
confeziona un film duro e ammonitorio nel mostrare come, dietro i lustri del
cambiamento, si celino i soliti meccanismi di controllo. Una realtà rispetto a cui,
come il giovane di Seb quando viene messo di fronte alle proprie azioni,
fatichiamo a levare il capo per guardarla dritta negli occhi, e che proprio in
questa “fatica” trova la sua maggior ragion dessere.
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