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Potere

di Giuseppe Gario
  Potere
Data di pubblicazione su web 08/01/2020  

Due Repubbliche fa, ero a colloquio con un potente che a una breve telefonata rispose: «Se credono che possiamo, facciamolo». Potere era la credulità altrui, che la Repubblica dopo sfruttò col miraggio di due milioni di nuovi posti di lavoro (e in concreto con quattro corposi condoni fiscali).

«L’Italia non ha mai avuto un normale ricambio di governo e neanche il 1994 può essere considerato tale». «In sostanza si può dire che continuò a rappresentare il vecchio blocco di potere, con quattro importanti diversità. Primo, la rimozione della mediazione politica autonoma: la nuova classe politica fu essenzialmente l’espressione diretta di una componente vitale del vecchio blocco che da ultimo la DC aveva fatalmente negletto, la piccola e media impresa. Secondo, la componente più popolare c’era sempre (necessaria a ogni forza di governo popolare conservatrice), ma non c’era neppure la parvenza d’inclusione anche solo parziale delle organizzazioni del lavoro. Terzo, la base di sostegno non era più soprattutto meridionale, com’era divenuto sempre più il sistema DC, ma settentrionale, nonostante il contributo di Alleanza Nazionale al Sud e il successo di Forza Italia in Sicilia. Quarto, chiavi del lungo potere DC erano stati Chiesa cattolica, anticomunismo e clientelismo. Per il blocco di destra l’anticomunismo mantenne intatta attrazione e validità. Anche il cattolicesimo restò importante – ad esempio sia Berlusconi che Fini cercarono di apparire buoni cattolici e padri di famiglia – ma il legame non fu organico come con la DC. Il ruolo integratore del clientelismo fu invece usurpato da televisione e consumismo, espressioni universali della società italiana contemporanea. La natura limitata di queste derive dice come la “nuova Repubblica italiana” sia diretta erede della partitocrazia e della sua pratica di assorbire e neutralizzare una vasta gamma di interessi, e come il suo futuro verrà determinato da una gamma di conflitti territoriali, di classe e gruppi di interesse non più facilmente riconciliabili». «La caduta di un vecchio sistema politico in piena bancarotta non portò a una rinascita democratica, ma piuttosto una protratta lotta di potere che in quasi tutto il suo corso fu gestita da potenti interessi occulti che avevano molto da perdere da ogni ridefinizione di regole e pratiche» (S. Gundle-S. Parker, The New Italian Repubic. From the Fall of the Berlin Wall to Berlusconi, London, Routledge, 1996, pp. 14-15).

Ambiente ideale per ogni «finanziere spregiudicato che, con le nostre regole, potrà fare il bello e il cattivo tempo. Ma non è colpa nostra dello straniero, è colpa nostra che non facciamo rispettare le regole» (L. Zingales, Il nostro Far West finanziario attira solo i cowboy, in «Il sole 24 ore», 30 luglio 2017, p. 6). È il «paradosso Italia. La politica si affanna a cercare strumenti anti povertà, ma il Paese diventa sempre più campione di ricchezza. A fronte di 5 milioni di indigenti, il risparmio gestito cresce a 2.280 miliardi, i depositi bancari a 1.700 miliardi. L’economia sommersa vale 210 miliardi e la ricchezza delle famiglie è da record: 8,4 volte il reddito medio». «Nel mezzo un’Italia polarizzata tra chi sa di più e chi resta analfabeta funzionale, tra chi ha un lavoro e chi non lo trova. Tra Nord e Sud. Ma anche, e soprattutto, tra chi è nel circuito delle regole e della legalità e chi, invece, resta invisibile in un sommerso sempre più dilagante». «È sommerso fatto di comportamenti border line, zone grigie, irregolarità elusive e furbesche, forse minute, ma diffusissime che, alla fine, diventano una gigantesca variabile macroeconomica» (A. Orioli, Il paradosso dei numeri italiani: povertà, evasione e ricchezza, in «Il sole 24 ore», 22 dicembre 2019, pp. 1 e 8). È la nostra via, ma senza ricerca e innovazione, al neoliberismo globale dell’ottimizzazione fiscale. «Lo Stato-provvidenza sembra minacciato dalla globalizzazione che rende più mobili cittadini e imprese e più profonde le ineguaglianze, oltre che da alcune correnti ideologiche. Senza un progetto nazionale comune, altri tipi di lealtà – etnica, religiosa o politica – possono rimettere in discussione la capacità dello Stato di richiedere sacrifici ai cittadini in caso di conflitto militare» (P. Seabright, Pourquois mourir pour son pays?, in «Le Monde», “Éco&Entreprise”, 29-30 aprile 2018, p. 1) e di catastrofi umanitarie e ambientali.

Esaurita la credulità, il potere cerca la stampella del mito nazionale. Inutile nell’UE subordinata agli stati e nell’area euro necessaria agli interessi al comando, serve contro le minoranze quando uno stato debole degrada in dittatura della maggioranza, con un capo carismatico e nel caso capro espiatorio. Da noi la formula è Lega nazionale-premier, offerta al manzoniano volgo disperso che volto non ha. «E intanto l’Italia vede riaffacciarsi e aggravarsi paurosamente fragilità antiche che rimandano agli squilibri creati dal processo dell’unificazione nazionale. Il problema dell’Unità d’Italia, di come sia avvenuta e di quali fratture abbia lasciato il sedimento, si pone ogni volta che, cambiando le sfide del presente, si è spinti a voltarsi indietro e a riflettere sulle parole di Antonio Gramsci “Realmente l’unità nazionale è sentita come aleatoria, perché forze ‘selvagge’, non conosciute con precisione, elementarmente distruttive, si agitano continuamente alla sua base”. Oggi quelle forze selvagge si manifestano di nuovo. Vediamo affiorare spaccature profonde lungo crinali antichi. E gli storici hanno sempre nuove ragioni per ricordare l’assioma di Marc Bloch: gli uomini sono figli dei loro tempi più che dei loro padri» (A. Prosperi, Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, Torino, Einaudi, 2019, pp. IX-X).

I figli nostri partono. «Lo scorso mese di ottobre la Fondazione Leone Moressa e la Fondazione Migrantes hanno rispettivamente presentato il Rapporto 2019 sull’economia dell’immigrazione e il Rapporto Italiani nel Mondo 2019, i cui risultati non solo certificano e confermano trend già noti e consolidati, ma mettono in luce anche più recenti preoccupanti dinamiche. In circa un decennio, dal 2009 al 2018, quasi 500 mila connazionali hanno lasciato l’Italia (saldo tra partenze e rientri), e di questi quasi 250 mila (l’equivalente della popolazione di Verona) sono rappresentati da giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni». «Su questo punto condividiamo quanto efficacemente scritto da Federico Fubini sul Corriere della Sera il 5 luglio 2019: “È invece un enigma, e una chiave per capire l’Italia, il fatto che gran parte di coloro che vanno all’estero vengano dalle regioni più ricche. Delle 57 province con un tasso di emigrazione internazionale superiore alla media del Paese, 45 hanno anche un tasso di occupazione più alto della media. Si espatria da culle di qualità della vita, ricchezza e produttività come Mantova, Vicenza, Trieste, Varese, Como, Trento. Fra le prime venti province per percentuale di abbandono del Paese, soltanto tre hanno meno occupati della media. Tutte le altre ne hanno di più, spesso molti di più: accade per esempio a Treviso, Pordenone o Bolzano. Questa gente non va via in primo luogo perché non trova lavoro. Dev’esserci qualcos’altro. […]. Ma la mappa dell’espatrio dice in primo luogo che, appunto, le cause profonde non sono solo economiche… Le ragioni devono essere anche culturali e psicologiche. Di certo i giovani istruiti che tendono a lasciare il Paese hanno più energia, più capacità di usare la tecnologia e idee più fresche dei lavoratori di età avanzata che in Italia rappresentano la maggioranza…. Ma ormai i ragazzi non aspettano, perché hanno un’alternativa: possono decidere che non vogliono più subire la lentezza, l’atrofia e la rigidità delle carriere. E se ne vanno.” Questo è l’ambito nel quale, come aziendalisti, possiamo e dobbiamo dare il nostro principale fattivo contributo, affinché le imprese diventino luoghi capaci di valorizzare i giovani» («Vitale Zane & Co.», n. 3, dicembre 2019).

Potere contribuire a progettare e realizzare il futuro è diritto di cittadinanza soprattutto dei giovani, con inestimabili risorse di tempo, aspettative, energie da investire ovunque siano nati e in UE sono a casa loro ovunque perché i cittadini hanno tutti pari dignità. «Una delle esigenze più urgenti degli Stati europei è pertanto quella di prender congedo dalle connotazioni naturalistiche dell’idea di Stato-nazione, inteso in termini di compattezza etnica o linguistica. Ciò permetterebbe di riannodare in maniera diversa i fili parziali delle identità collettive in una “corda” intrecciata di memorie, valori, cultura e affetti variamente condivisi tra i singoli cittadini e i vari popoli. Solo se si riuscisse a evitare una chiusura esasperata in se stesse delle comunità più inquiete, anche l’èra dei moderni Stati nazionali potrebbe considerarsi conclusa. Diverrebbe in tal caso possibile assegnare un differente ruolo sia allo Stato sia alla nazionalità. E forse, chissà, in modi per noi ancora imprevedibili nei loro concreti sviluppi, persino il sangue d’Europa finirebbe probabilmente per scorrere meno copioso» (R. Bodei, Libro della memoria e della speranza, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 63-64). Dopo il genocidio in Bosnia e perdurante l’ininterrotta sequela mediterranea di omicidi in nome dei sacri confini nazionali, è indispensabile un governo federale UE perché «non sappiamo che cosa sia la felicità umana, ma sappiamo che cosa non è. Sappiamo che la felicità umana non può prosperare dove dominano l’intolleranza e la brutalità. Non c’è nulla di più pericoloso del sapere tecnico quando non è accompagnato dal rispetto per la vita umana e per valori umani. L’introduzione di tecniche moderne in ambienti che sono ancora dominati dalla intolleranza e dalla aggressività è uno sviluppo estremamente allarmante. Come scrissi altrove: “Il fatto di istruire un selvaggio nell’uso di tecniche avanzate non lo trasforma in una persona civile, ma ne fa solo un selvaggio più efficiente [soprattutto nei social, ndr].” Il progresso etico deve accompagnarsi allo sviluppo tecnico ed economico. Mentre insegniamo le tecniche, dobbiamo insegnare anche il rispetto per la dignità e il valore e il carattere sacro della vita umana. Se non vogliamo che la fine sia peggiore dell’inizio è necessario intraprendere un’azione urgente» (C.M. Cipolla, Uomini, tecniche, economie, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 142). Lo scriveva nel 1960 a Berkeley, oggi dobbiamo passare all’azione, con un governo federale UE.

«YouTubers e personaggi Instagram non sottoscrivono codici editoriali di condotta né si interessano alle tradizionali pratiche di correttezza e obiettività e le loro motivazioni prescindono dagli antiquati concetti di pubblica utilità. Da qui il tremendo potere dei rivoltosi dell’informazione. Governi e istituzioni non possono semplicemente farli sparire. Anzi alcuni sembrano già volersi buttare nella mischia. All’assemblea generale ONU di settembre 2019, il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, ha detto: “Anche se possiamo volerlo rifiutare e combattere, internet è sempre più il mondo reale”» (Seize the memes, in «The Economist», 21 dicembre 2019-3 gennaio 2020, p. 86)». «Non esiste cattiva pubblicità, il 2019 è stato un successone per Donald Trump. Il presidente ha affrontato i fulmini dei repubblicani furiosi per il suo ritiro dalla Siria e dei democratici intenzionati a destituirlo. Ma, anche se per lo più l’attenzione che riceve è negativa, fa presa. Secondo Chartbeat, che misura l’audience del giornalismo online, i lettori dei siti del suo database nel 2019 hanno speso 112 milioni di ore divorando le storie relative a Trump – il top di tutte le parole-chiave» (The Trump bump, in ivi, p. 125). Trump ha battezzato il 2020 col sangue. «Trump non pensa strategicamente, sa poco di politica estera e Medio Oriente, non ragiona sulle conseguenze profonde dei suoi atti, va d’istinto. Soleimani l’aveva irriso e sfidato, “non c’è nulla che Trump possa farmi”, il presidente l’ha visto a bersaglio e ha premuto il grilletto» (Ian Bremmer, direttore di Eurasia, intervistato da Gianni Riotta, in «la Repubblica», 4 gennaio 2020, p. 4). Spettacolo di morti veri, anche se così non sembra ai remoti abitanti di Internet.

«“I media digitali li hanno abituati a sottrarsi all’imbarazzo delle relazioni umane dirette”, deplora Sherry Turkle, psicosociologa al Massachusetts Institute of Technology nel suo libro Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age (New York, Penguin Press, 2015). Secondo lei, si apre una “primavera silenziosa delle relazioni umane”. Resteranno il bip degli SMS e le interrogazioni sui palmari» (P. Krémer, Extintion des voix, in «Le Monde» “L’époque”, 11-12 giugno 2017, p. 5). E sempre meno legami sociali.

«Tutto sta infatti nelle relazioni che si intrattengono con gli altri. Inferno dell’io che si isola per affermarsi, e raggiunge angosciosamente la sua solitudine fondamentale: “Dove sono io, là c’è una volontà libera, e dove c’è una volontà libera, c’è virtualmente un inferno assoluto ed eterno”, scrive Marcel Jouhandeau. Inferno complementare della comunicazione forzosa con gli altri: Huis clos, di Sartre, è un riassunto della condizione umana, una tragedia a tre: tu e io, sotto lo sguardo di lui; condannato a vivere con l’altro, io non esisto che mediante lui e sotto il suo sguardo, e non posso far nulla per cambiare la mia immagine; io non sfuggo a me stesso». «La coscienza dell’assurdità di questa situazione intensifica la sofferenza: io vivo “straniero” agli altri e all’universo, gettato in un mondo senza scopo e senza fine: è l’inferno di Camus» (G. Minois, Piccola storia dell’inferno, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 120-121). Sotto il nuovo sole digitale, niente di nuovo.

Abbiamo da poco commemorato l’impunita strage di piazza Fontana a Milano, prova di civiltà delle persone cosiddette comuni e di malvagità d’altre che si reputano speciali: «senza attribuirgli qualcosa di originariamente inumano, disumano o mostruoso» «comporta solo riconoscere che l’essere umano può essere immensamente malvagio» (E. Gentile, Normalizzazione di un mostro, in «Il sole 24 ore», 29 dicembre 2019, p. 23). Un collaboratore di Franco Freda alla libreria Ezzelino ha confidato: «“Siamo stati noi, in fondo era plebe”» (M. Dondi, 12 dicembre 1969, Roma-Bari, Laterza, 2018, p. 120). Disprezzare e uccidere un proprio simile, chiunque e comunque, è un’immensa malvagità di cui l’indifferenza ci rende complici o vittime, alternativa diabolica che sta solo a noi rendere irreale.







 
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