Lo zaino con il quale Ashleigh
Enright (Elle Fanning) giunge a New
York con il fidanzato Gatsby Welles (Timothée
Chalamet) e che reca le proprie iniziali A.E. è della Maison Goyard. Prestigiosa
Casa parigina, fondata poco prima (1853) della più nota Louis Vuitton con la
quale ha in comune, fra le altre cose, il tipo di tessuto in tela. Woody Allen inquadra lo zaino – e i set
di bagagli che i due ricconi portano nel grande albergo, fra i quali anche dei Vuitton
e probabilmente degli Hermès – in campo medio, come a evitare di sottolineare
troppo il lusso e il prestigio di tali set o, in ogni caso, a non farne troppo
esplicito indizio da product placement.
Banale dettaglio? Ovvi riferimenti
per due giovani di quello status? Anche. Eppure quello zaino continua a
intrigarci anche dopo la visione del film, perché sembra essere un micro
segnale, ricco di originalità e raffinatezza, come un Goyard vs. Vuitton, per parafrasare
il titolo di un aureo saggio di Roland Barthes
(Chanel vs. Courrèges). Una
raffinatezza squisita e squisitamente europea del resto avvolge tutto il film, fattore
non certo inedito nel cinema di Allen ma a sua volta rinnovato in queste
giornate piovose nella Grande Mela.
La metropoli stessa è inquadrata
spesso fra i propri spazi meno riconoscibili, percorsa molto a piedi
(soprattutto da Gatsby) e con unarticolazione “a tappe”, una flânerie che richiama, chez Allen, in particolare quella di Midnight in Paris (2011), e certamente
quella del modello costante di riferimento anche sul tema, Manhattan (1979). Gatsby, ma un po anche Ashleigh, sono infatti
dei flâneurs e come tali si perdono
nella grande città, loro che peraltro vengono dalla piccola periferia del Campus
dove studiano. Una scena del film
Il crescente gioco di equivoci,
contrattempi, sorprese sembra concertato come in una pièce di Marivaux (in particolare pensiamo al Gioco dellamore e del caso e magari,
sul piano cinematografico, allinfluenza di Eric Rohmer) e se si aggiunge un diffuso tono da “grazia mozartiana”
si potrebbe definire questo film come il più europeo fra quelli del regista.
Ma, oltre agli elementi finora notati, cè un altro dettaglio chiave che getta
una “luce illuminante” sullanalisi del film: è quando Gatsby, evidente doppio
del regista “da giovane”, gran lettore, lancia una frecciata al “noioso” Henry James, come noto uno dei grandi
scrittori americani più intriso di cultura e suggestioni europee. Ebbene, in un
magnifico racconto lungo del giovane James, La
storia di un capolavoro (1868), i caratteri sono soggetti a una tale
raffinata (e ricca di ironia) introspezione, nonché al centro del gran tema
della gelosia maschile – di cui è a suo modo affetto anche Gatsby – da far
pensare che almeno un certo James sia ulteriore (anche nella scelta del nome
della ragazza) e dunque profondo segnale di una messe, tanto ricca quanto per
nulla intellettualistica, di colti riferimenti.
Uno dei motivi della grande
fascinazione che questo Allen suscita è proprio legato a una sovrana capacità
di essere leggero e profondo, colto ma anche immediato. Sembra infatti che il
possibile livello profondo del film sia tutto nella propria superficie e in
primo luogo è consigliabile vederlo lasciandosi trasportare dalle vicende,
sempre più rocambolesche (un po alla Misterioso
omicidio a Manhattan, 1993) della giovane coppia e dei personaggi che le
ruotano intorno. Una scena del film
Terzo film consecutivo che Allen
condivide con Vittorio Storaro (nel
frattempo i due ne hanno girato un altro, in probabile uscita primaverile) conferma
sia un notevole affiatamento tra i due sia, ovviamente, il magistero della luce
cinematografica. Questa New York è di una illuminazione naturalistica pressoché
oggettiva negli esterni, laddove negli interni (prevalentemente lussuosi)
avvolge di calda luce chi li abita o frequenta. Una luce perfino più calda
rispetto a quella di una rappresentazione naturalistica: si pensi, nella filmografia
di Storaro, al coppoliano Un sogno lungo
un giorno (1982). Un mondo ovattato sul quale, tuttavia, Allen ci riserva
un mirabile coup de théâtre nel
sottofinale, con la confessione della madre di Gatsby (una strepitosa Cherry Jones) al figlio. Come dire,
alla Jean Cocteau: bisognerebbe che
gli specchi riflettessero un po su sé stessi prima di riflettere le immagini…
Dopo una ricostruzione accurata
ma un po fiacca di ambienti che peraltro conosce molto bene (Café Society, 2016) e una meravigliosa
storia di vite dolenti (La ruota delle
meraviglie, 2017), Allen si conferma in stato di grazia con questa commedia
(degli errori…) – tra sofisticata e screwball – pressoché perfetta, che oggi può costituire un
rinnovato modello di stile per un genere tanto affascinante quanto complesso.
Con una giovane attrice a sua volta straordinaria (si pensi in primo luogo alla
scena al ristorante) e un giovane attore più che credibile e dignitoso, anche
nella bella dizione, che la versione originale consente di apprezzare.
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