Les
vêpres siciliennes è lunico caso in
cui un musicista come Verdi, di solito assai risoluto, sembra a tratti senza
bussola: alle prese con il suo primo vero grand-opéra (Jerusalem fu
un rifacimento dei Lombardi alla prima crociata), pare subire più che
introiettare certe ferree regole grammaticali parigine, dai cinque atti regolamentari
al balletto tanto superfluo quanto ineludibile. Il risultato? Profusione di
musica sublime allinterno duna intelaiatura mastodontica e disorganica; la storica
rivolta palermitana evocata dal titolo che, nelle tre ore e mezza in cui si
sviluppa la partitura, occupa gli ultimi trenta secondi; infine, una scrittura
vocale ondivaga fino allineseguibile: se La traviata – come
ancor oggi si pretende – richiede tre diversi soprani, come fare per Hélène,
che inizia nel primo atto da granitico soprano drammatico e muore nel quinto da
elasticissimo soprano leggero, alle prese con le saltellanti agilità del Bolero?
E come risolvere Henri, che dopo aver circumnavigato ogni sponda della
tenorilità eroica e patetica si ritrova, in sottofinale, con la tessitura
acutissima di La brise souffle au loin?
Se
Verdi appare qui disorientato, il merito maggiore di questo nuovo allestimento
che ha aperto la stagione dellOpera di Roma è, invece, aver dato vita a uno
spettacolo orientatissimo. Né Daniele Gatti sul podio né Valentina
Carrasco in cabina di regia, e neppure uno dei cantanti protagonisti, avevano
mai affrontato Les vêpres: esserci arrivati tutti vergini ha garantito una
lettura sgombra da cattive tradizioni, retoriche spicciole, semplificazioni
drammaturgiche. Assicurando una progettualità interpretativa che non si adagia sullaccumulo
dei materiali (la scelta più ovvia in unopera come questa), ma trova il suo “centro”
in una coesione che filtra – non restituisce – le convenzioni del grand-opéra.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Era
questa la via più logica per un direttore come Gatti: bacchetta “evocatrice” piuttosto
che “narratrice”, concertatore più sollecito nellamalgamare che nellaccompagnare.
Ne scaturisce una lettura oltremodo analitica, di cui i tempi lenti – fin troppo
diluiti, allapparenza – sono il naturale corollario: il fraseggio orchestrale (ampio
ma non arioso, anzi programmaticamente scabro) e la qualità sonora (ora cinerea,
ora pulviscolare) sembrano occhieggiare a un Verdi più sperimentale di quello
dei Vespri siciliani, propenso alla “prosa musicale” più che alla
cantabilità (pure il ricorso alloriginale francese, anziché alla versione
ritmica italiana, è uno sprone in tal senso) e che al grande involo romantico-risorgimentale
ci guarda ancora, sì, ma come da lontano. Già il cupo “pianissimo” iniziale
della Sinfonia, lontano da avvisaglie epiche e compiacimenti fonici, è un biglietto
da visita in tal senso; e si avverte come ben più delle ampie campate melodiche
a Gatti premano la struttura dei concertati, il parlante espressivo del
quartetto a cappella, gli espressionistici “staccati” del coro nel tempo di
mezzo tra laria e la cabaletta di Procida, le inquietanti oscillazioni e gli
inopinati rallentamenti che introducono laria di Montfort.
In
perfetta unità dintenti con il podio, la Carrasco impagina uno spettacolo bello
e vero, capace di raccontare senza retorica la Storia, la politica, il dolore, i
sentimenti. È una regia che decontestualizza il racconto: la Sicilia del 1282
si trasforma, grazie anche alle scenografie di un maestro come Richard Peduzzi,
in un Sud metafisico privo di precisi addentellati geografici, mentre linvasione
angioina cede il passo – nelle divise genericamente moderne degli occupanti – a
una tirannide tanto più senza tempo quanto più anatomizzata nelle sue
sopraffazioni. Ma sarebbe difficile, al riguardo, accusare la regista di
arbitrio: la stessa committenza parigina alla radice dei Vêpres rese
problematica per Verdi una netta divaricazione tra siciliani “positivi” e francesi
“negativi”; e la Palermo che fuoriesce dalla sua musica, a parte la fugace
pennellata della tarantella in riva al mare, non ha davvero nulla di
etnografico. Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
In
questo meridione mentale, dove la cava di pietra disegnata da Peduzzi evoca una
terra violentata al pari delle sue abitanti, la Carrasco innesta poi elementi
materici e primordiali (vesti stracciate, secchi, cordami, montagne di polvere…)
che, con progressione quasi millimetrica, fanno transitare lo spettatore dal
metafisico al fisico: ideale corrispettivo di quel percorso – dalla
rassegnazione degli oppressi alla loro inopinata rivolta sugli ultimi accordi
orchestrali – che lo stesso Verdi mette in moto. Insomma una regia indifferente
allesteriorità del libretto, ma in sintonia con la drammaturgia del musicista:
e che, così facendo, consente di ribaltare lassunto del ruolo esornativo sostenuto
in ogni grand-opéra dalle danze, trasformando quella mezzora di siparietto
coreutico in un momento funzionale allo sviluppo del plot.
Anziché
rappresentare il divertissement delle quattro stagioni, la regista – assumendo
a punto di osservazione, per ciascun movimento, uno dei quattro protagonisti – utilizza
infatti il balletto per mostrare i lati oscuri di ogni personaggio. Per rievocare
lo stupro collettivo che sarà alla radice dellinsurrezione. Per fare dello
stesso Henri il frutto di una violenza. Per dipingere lalba di una nuova solidarietà
tra donne umiliate ben prima che gli uomini si decidano a reagire. Ne nasce una
coreografia (firmata dalla stessa Carrasco, in collaborazione con Massimiliano
Volpini) narrativa e introspettiva al contempo: e la squisitezza
pleonastica del brano si converte così in autentica musica “scenica”, dove
grida e rumori non appaiono fastidiose sovrapposizioni, ma logiche integrazioni.
In questa lettura cruda e profondamente femminile anche i momenti visionari
mantengono spessore psicologico, come quel fantasma della madre di Henri che si
materializza in scena, ma restando dietro le spalle del suo ragazzo e di Montfort.
Epitome di ogni donna destinata, in tempi di guerra, a rimanere trasparente: per
il proprio uomo come per il proprio figlio.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Lo
scontro di generazioni, la collisione tra odio politico e amore filiale, lorrore
di ritrovare un padre ignoto nel proprio nemico rappresentano daltronde il fulcro
drammatico dellopera: forse per questo, ma anche per pregi intrinseci, John
Osborn e Roberto Frontali appaiono i due lati più convincenti del rettangolo
protagonistico. Il primo sbalordisce per il dominio tecnico (un suono “misto” perfettamente
governato nelle risonanze petto-testa), la consapevolezza stilistica (tenorilità
ottocentesca francese e arroventati fraseggi verdiani convergono senza artifici),
lappiombo interpretativo (aristocratico nella perorazione patriottica, elegiaco
nel ripiegamento amoroso), il nitore con cui restituisce il disegno melodico di
ogni cantabile. Mentre Frontali – con uno strumento certo meno fresco, ma altrettanto
risonante – simpone invece per lemissione omogenea, laccento protervo eppure
non disgiunto da una precisa nobiltà di fondo, lintelligenza con cui sviscera,
pungolato dallanaliticità di Gatti, la natura bitematica della grande aria di
Montfort, rendendola speculare allanima divisa in due del personaggio.
Michele Pertusi denuncia anchegli una certa aridità
timbrica che però, al contrario di Frontali, non arriva a compensare con la varietà
del fraseggio, se non altro perché Procida è un ruolo che Verdi taglia più con
laccetta. Rimangono lautorevolezza scenica, la saldezza del registro
medio-alto (gli affondi gravi vengono invece onorati con fatica) e, soprattutto,
la morbidezza di un “legato” dottima scuola. Quanto a Roberta Mantegna,
resta limpressione che sia ancora troppo giovane per scalare ogni anfratto di
quella montagna che è la vocalità di Hélène. Se la cantante appare qua e là
acerba, linterprete è però già matura: un ritratto di donna infuocata e contraddittoria,
sediziosa e votata alla solitudine, riassunto da un Bolero (altro momento
magico della regia) che qui non è un tripudio di gorgheggi al cospetto delle
amiche, ma un tetro soliloquio a palco sgombro.
Tra i comprimari converrà ricordare la personalità di Irina Dragoti
– una Ninetta di profilo quasi deuteragonistico – e la robustezza vocale di Dario
Russo e Andrii Ganchuk, che danno voce agli oppressori Béthune
e Vaudemont. Quanto al coro (sono le masse il vero protagonista dei Vêpres),
si sa che quello dellOpera di Roma canta solitamente molto bene. Ma che questa
volta sappia anche recitare è tutto merito della Carrasco.
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