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Transizioni

di Giuseppe Gario
  Transizioni
Data di pubblicazione su web 05/11/2019  

«Il XX secolo è stato il periodo più straordinario della storia dell’umanità, unendo catastrofe umana senza precedenti, miglioramento materiale sostanziale e capacità inedita di trasformare – e distruggere – il pianeta e persino di evitarlo» (J.E. Hobsbawm, L’èmpire, la dèmocratie, le terrorisme, Versaille, Monde diplomatique, 2009, p. 9).

Ora «benché l’ampiezza della globalizzazione resti abbastanza modesta, salvo forse qualche Stato di solito piccolo e spesso europeo, ha ricadute politiche e culturali spropositate. Perciò l’immigrazione è problema politico centrale nella maggior parte dei paesi occidentali sviluppati, anche se gli esseri umani che vivono fuori dai paesi natali non eccedono il 3%. Nel 2007 secondo l’indice KOF di globalizzazione economica gli Stati Uniti erano al 39° posto, Germania 40°, Cina 55°, Brasile 60°, Corea del Sud 62°, Giappone 67°, India 105°. Salvo il Brasile, tutti sono però meglio posizionati nella scala della globalizzazione sociale (il Regno Unito è la sola economia importante tra le prime 10 della globalizzazione sociale ed economica [e la derivata labilità politica, ndr]). Temporaneo o no, quest’impatto smisurato potrà avere a breve serie ripercussioni politiche nazionali e internazionali. Tendo a credere che, in un modo o nell’altro, la resistenza politica rischi di rallentare il progresso del libero-scambio nei due prossimi decenni – anche se il ritorno a politiche protezioniste esplicite è poco probabile» (ivi, pp. 12-13).

«Democrazia, valori occidentali e diritti umani non sono paragonabili a una qualsiasi tecnologia di importazione i cui benefici appaiono sin dall’inizio e di identico impiego per tutti gli utenti che possono permettersi di acquisirla». «In breve sono pochissime le scorciatoie nella storia – lezione che l’autore di questo libro ha imparato nient’altro che vivendo e riflettendo nella maggior parte del secolo scorso» (ivi, p. 19). «Non possiamo sapere che tipo di struttura economica e organizzazione mondiale risulterà dalla crisi presente, ma un ritorno al fondamentalismo del libero mercato è certo impossibile» (ivi, p. 22).

Cauta – l’outsider Trump ha scatenato una guerra protezionista – la diagnosi indica la prognosi: il mondo va governato. Lo sa la Génération Europe del ventottenne Rayan Nezzar: «In questo mondo che viene, conteremo meno per il nostro peso demografico o economico che per la nostra influenza diplomatica e la forza dei nostri princìpi. In questo mondo multipolare, avremo sempre interesse a difendere insieme le nostre preferenze collettive verso i grandi insiemi geopolitici e commerciali. In questo mondo dove la guerra fredda non c’è più ma dove i conflitti perdurano, uno “splendido isolamento” dell’Europa non è affatto sostenibile salvo affermare che i nostri valori siano solo occidentali e che i nostri interessi si fermino alle nostre frontiere» (Parigi, Michalon, 2018, p. 156). «La nostra alternativa non è amare l’Europa qual è o lasciarla: possiamo sempre ricostruirla così come dovrebbe essere». «Perciò non dubito che, all’ora stabilita, una generazione nuova di persone impegnate si leverà a assumersi le proprie responsabilità», «per la nostra Europa, il meglio resta a venire» (ivi, p. 186).

Per Émile Harel, studente in sesta classe, «appassionato di storia, sport e videogiochi», l’Europa è «un continente con molti paesi, lingue, tradizioni, sport». «La storia europea comincia in Grecia antica molti secoli fa. Significa che ha un passato molto vecchio. Ci sono state guerre di religione, guerre civili, la campagna napoleonica e di recente la Prima e Seconda Guerra Mondiale. Gli Europei non hanno mai conosciuto periodi durevoli di pace. Allo stesso tempo l’Europa ha fatto molti progressi scientifici in medicina, anatomia, astronomia, chimica. Molte opere d’arte sono state create in pittura e letteratura. L’Europa è un po’ il centro della storia del mondo». «In sessantadue anni sono avvenute molte cose. In primo luogo, la pace tra i paesi. Ora si viaggia liberamente senza controlli di frontiera. In molti paesi usiamo la stessa moneta: l’euro. Gli studenti possono studiare in altri paesi europei. Abbiamo un buon livello di vita. Abito a Strasburgo, una capitale dell’Europa. Papà è francese e mamma polacca. Uno dei miei migliori amici è tedesco. A scuola studio tedesco e inglese e alcuni miei compagni di classe sono di origine straniera. È bene che l’Europa permetta di mescolarsi e vivere insieme con gioia e rispetto. Penso sia un’identità europea da preservare. Vorrei continuare a crescere in pace e con gioia» (L’Europe dont je rève pour nous. Paroles des collégiens et lycéens, «Un bout de chemin éditions», 2019, pp. 47-49). Con un multiplo dei suoi anni, anch’io.

Nella crisi comatosa degli stati nazionali, «l’Europa è in crisi perché gli europei hanno bisogno di uno Stato europeo forte e democratico, ma tengono ai loro Stati nazionali perché l’Unione Europea non è forte né democratica. Sono in trappola e ne usciranno solo troncando la questione della sovranità». «Gli europei usciranno dalla trappola in cui sono presi ponendo la loro sovranità sopra quella della nazione» (J.F. Billeter, Demain l’Europe, Allia, 2019, pp. 15-16). «È un’Europa futura che bisogna immaginare, non quella di ieri. Sta alle giovani generazioni inventarla, per sé stesse e per i loro figli» (ivi, p. 19). «Allo stesso tempo potranno risolvere un problema più grave che viene da più lontano, ma di cui sono meno consapevoli perché chi vi ha interesse fa di tutto per nasconderlo. Si tratta della libertà perduta dopo che il capitalismo ha loro imposto la sua legge. La recupereranno stabilendo la repubblica e il primato del politico sull’economico» (ivi, p. 27).

«L’unione economica e monetaria è al contempo la minaccia più chiara per i modelli sociali nazionali, ma anche la possibilità più forte di reagire e cercare di modificare le regole del gioco a livello europeo, e ha conosciuto sviluppi importanti dopo il 2008 e soprattutto a partire dal 2010», con «l’emergere della nuova governance economica per l’aumento di potere della BCE e della Germania», «complessa perché non è stabilizzata ed emerge da diversi tipi di strumenti e logiche di controllo. Ma il punto cruciale è la politica e l’importanza dei rapporti di forza politici. I risultati di questo periodo sono in linea con le attese quando la destra è simultaneamente al potere negli stati membri e naturalmente si riflette in modo diretto e indiretto sulla Commissione e sul Parlamento europei. La nuova governance in atto porta a una deregolamentazione radicale delle istituzioni di solidarietà in certi stati membri. Si unisce a una crescente divergenza (e non convergenza) tra gruppi di paesi e tra regioni nei paesi» (P. Pochet, À la recherche de l’Europe sociale, PUF, 2019, p. 28).

Ma nell’UE, malgrado la centralità assegnata al mercato, «contrariamente a quella nazionale, la legislazione sociale non ha subìto un processo di deregolamentazione (finora). Il diritto sociale europeo che appariva debole o minimale dieci o quindici anni fa, pare oggi una rete di sicurezza molto utile» (ivi, p. 347). La sfida su cui convergere è ambientale. «Lo sconvolgimento climatico è un problema non solo ecologico, ma sistemico». «Per lungo tempo l’Unione Europea è stata pioniera in quest’ambito. Nel 2001 ha lanciato una Strategia di sviluppo durevole inclusivo di aspetti sociali quali la lotta alla povertà o la questione delle cure sanitarie»: anche «questo approccio è tuttavia messo a tacere a partire dal 2010» (ivi, pp. 306-307). «Invece di considerare le politiche del cambiamento climatico una distrazione dalle questioni sociali urgenti (invecchiamento, ineguaglianza salariale crescente, immigrazione, ecc.), chi lavora alle politiche sociali dovrà valutare la transizione climatica come una realtà emergente che apre possibilità di cambiamento, anche nei luoghi noti per la loro resistenza al cambiamento. Ma il punto più difficile è quello degli attori e delle coalizioni: quale strategia per sviluppare il cambiamento tecnologico, ma anche delle necessarie preferenze collettive? È una questione centrale per passare effettivamente all’azione. È attorno a una dinamica di transizione giusta che devono svilupparsi le azioni» (ivi, pp. 328-329).

«In modo totalmente inatteso, un nuovo attore è sorto a fine 2018-inizio 2019: i giovani europei, soprattutto studenti secondari, si sono messi a manifestare per il clima. Sono riusciti a organizzare in modo decentrato uno dei più grandi movimenti di sciopero e mobilitazione da decenni in qua. Sta qui l’anello mancante? L’attore necessario per coalizzare gruppi diversi e porre nel lungo termine la questione climatica e quella dei cambiamenti comportamentali individuali e collettivi? Una lettura storica ci rende prudenti perché movimenti simili sono esistiti a fine anni 1960 e negli anni 1970. Sono stati spazzati via dall’ondata neoliberale. Analizzando le loro rivendicazioni è tuttavia chiaro che le questioni ambientali e sociali sono intimamente legate. È comunque l’occasione per costruire una piattaforma comune di una transizione socio-ecologica» (ivi, p. 329). L’ondata neoliberale passa, ci dice Hobsbawm. I mutamenti sistemici si impongono da sé, vanno governati e «se non si fa nulla, l’Europa dovrà affrontare una migrazione permanente»: «lo sviluppo è la soluzione per contenere la bomba demografica africana» (J. Buchalet-C. Pratt, Le future de l’Europe se joue en Afrique, Parigi, Èditions Ayrolles, 2019, p. 240).

«Riscaldamento climatico, miseria e guerre sono le cause principali». «Senza questi problemi d’accesso alle sue risorse l’Africa sarebbe capace di nutrire tutto il continente» (ivi, p. 241). «Ogni volta che la fame aumenta dell’1% le migrazioni progrediscono del 2%. La risposta dell’Europa dev’essere certo securitaria, ma anzitutto di sviluppo industriale» (ivi, p. 242). «L’energia è il motore dello sviluppo. Nel 2015, circa i due terzi della popolazione africana non avevano ancora accesso all’elettricità» (ivi, p. 243). «Il continente ha la capacità di diventare il serbatoio energetico dell’Europa, specie nelle energie rinnovabili» (ivi, p. 244). «Questo “New Deal” darà un senso all’avvenire di Africa e Europa. L’Africa deve diventare nostra priorità. Il futuro dell’Europa si gioca in Africa» (ivi, p. 245).


Transizione. Manager costretti al successo da azionisti sempre più avidi, loro inclusi, sfruttano il marasma degli stati nazionali, e l’uno per cento dell’umanità è sempre più ricco nella globalizzazione vera del cambiamento climatico, spesso negato, ma agli albori, spesso truffaldina (SUV Volkswagen, 737 MAX Boeing, Panama Papers…). Quos deus perdere vult dementat prius: confondi la mente della gente e fanne ciò che vuoi, dicono gli inglesi. Scommettitore di mestiere e, dopo aver donato cinque milioni di sterline, imprescindibile riferimento dei conservatori, Stuart Wheeler punta sulla fine UE (BBC, Hard Talk, 11 ottobre 2019, 21:00). Scommessa seriale: Remain era dato in testa (Cameron ci credeva), a pro degli scommettitori Brexit. La fortuna va aiutata, si sa, oggi con social e influencer a confondere le menti. L’intervistatore BBC infine chiede: ricchissimo, Wheeler può affrontare Brexit anche se va male, e i cittadini britannici che stentano la vita? UE va giù, UK globale no. Ciascun per sé.

Da noi, «un intellettuale della Lega, il professor Gianfranco Miglio, un accademico milanese che aveva contribuito a far conoscere in Italia il pensiero di Carl Schmitt, si dichiarava apertamente favorevole al “mantenimento della mafia e della ‘ndrangheta al Sud”, precisando sibillinamente: “Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe una assurdità. Esiste anche un clientelismo buono, che può determinare la crescita economica”» (J. De Saint Victor, Patti scellerati. Una storia politica delle mafie in Europa, Torino, UTET, 2013, p. 336). «Non mi fecero ministro perché avrei distrutto la Repubblica»: Miglio è citato da «Il Giornale» del 20 marzo 1999. «Oggi, invece, il mafioso è riuscito a togliersi una maschera: non deve più camuffarsi da imprenditore, è diventato egli stesso un imprenditore che sfrutta senza problemi il vantaggio competitivo che gli viene dall’essere criminale di stampo mafioso. I costi di tale strabordante potere economico sono enormi e si pagano in termini di violenza, instabilità politica e sociale, inquinamento ambientale» ma esso è tale che «l’inclusione delle attività illegali nel reddito nazionale è una possibilità che l’Unione Europea ha concesso agli istituti di statistica degli Stati membri» «con l’“obiettivo di accrescere la comparabilità internazionale delle stime”» (S. Consiglio et al., Organizzazioni criminali, Roma, Donzelli, 2019, pp. 92 e 95). Eliminate le barriere tra legge e crimine, si capisce l’attuale vulgata politica sulla sostenibilità del nostro debito, nella nostra insindacabile sovranità. Banditismo legalizzato, come il nazismo, poi processato a Norimberga. Allora nazionalismo socialista, ora nazionalismo affarista.

«La Russia guarda all’Africa come a una immensa start up» («Il Sole 24 Ore», 27 ottobre 2019, p. 1) e noi, ponte tra Europa e Africa, puntiamo su Visegrad, Russia e PIL del malaffare? Quos deus perdere vult dementat prius, con social e influencer. I nostri giovani, sempre meno nella transizione demografica, vanno in Europa e quelli che vengono da fuori, una prima assoluta, c’è chi tra noi li rende invisibili nel libero mercato della malavita e, se arrivano visibili su navi ONG, li respinge. Italexit.






 
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