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Tra me e me

di Giuseppe Gario
  Tra me e me
Data di pubblicazione su web 08/02/2019  

«Fondamento degli stati “moderni” affermatisi a fine Medioevo, l’imposta deve riguardare tutta la popolazione, essere accettata, regolare e versata per servire il bene comune». Come nel Medioevo, «la fiscalità è accettata solo se le popolazioni percepiscono che tutti contribuiscono secondo i loro mezzi e possono costatarne gli effetti benefici» (V. Theis, Le Moyen Âge, laboratoire de la fiscalité, in «Le Monde des Idées», 19 gennaio 2019, p. 5).

Niente bene comune senza tasse e viceversa: il fisco è cerniera tra stato e mercato. In democrazia anche la politica è bene comune: niente tasse senza rappresentanza. Oggi l’ineguaglianza provoca forme di diffusa rivolta «in cui gran parte della questione è la rimessa in causa della fiscalità. In questi momenti lo storico medievale può provare il sentimento di un eterno ritorno, non del passato, ma degli stessi dibattiti, che traducono la triste incapacità degli esseri umani a trovare soluzioni equilibrate per consentire la vita associata» (ibid.).

Ostile all’idea stessa di bene comune, il neoliberismo mette in concorrenza fiscale gli stati e «Warren Buffett è sorpreso di pagare meno imposte della segretaria» mentre «primo nella storia, il candidato Trump ha rifiutato di pubblicare la dichiarazione dei redditi». Eppure «dopo la guerra le leggi fiscali americane confermano l’importanza dell’imposta sul reddito a base del sistema redistributivo, con tassi fino al 91% sui redditi più elevati». «Culturalmente egemone, l’antifiscalismo dei più ricchi la dice lunga sulla strada percorsa dalla seconda guerra mondiale negli Stati Uniti nel contestare il patto fiscale concluso allora tra tutti i cittadini» (R. Huret, Aux Etats-Unis, les riches ont eu la peau de l’impôt, in «Le Monde, “Éco& Entreprise”, 20-21 gennaio 2019, p. 7).

«L’esperienza di mondializzazione a fine XIX secolo mostra che l’intervento dello Stato non frenò, ma fece accettare le trasformazioni radicali di economia e società». «Furono spesso i governi liberali a introdurre regolamentazioni del mercato del lavoro e misure sociali per proteggere i salariati e rendere sopportabili gli effetti della mondializzazione. Rafforzarono la regolamentazione pubblica del mercato del lavoro e le assicurazioni sociali, introdotte anche in diplomazia con accesso al mercato (o circolazione dei lavoratori) in cambio di regolamentazioni sociali convergenti. Nell’istituire la Comunità economica europea la complementarità tra mercati aperti e contropartite sociali fu capita perfettamente e iscritta nei testi. Ma poi – soprattutto con la svolta imposta da Margaret Thatcher e mai davvero rimessa in causa – la convergenza sociale è stata abbandonata a favore del solo mercato unico dove la concorrenza, specie fiscale, ha spesso prevalso su armonizzazione e coordinamento. Da qui l’attuale impopolarità dell’Unione. Dalla crisi attuale si potrà uscire solo a due condizioni. La prima è che i dirigenti politici ed economici accettino nuove forme di rivendicazioni per completare o sostituire sindacati indeboliti all’interno e all’esterno, e riconoscere che la velocità di cambiamento e le contropartite sociali sono in definitiva una decisione democratica. La seconda è estendere questo dibattito a livello europeo, l’unico capace di costruire la protezione sociale di domani alla necessaria scala» (P.-C. Hautcœur, Les libéraux n’ont pas toujours négligé les perdants, in «Le Monde», “Éco&Entreprise”, 20-21 gennaio 2019, p. 1).

Costruzioni giuridiche, democrazia e mercato funzionano se socialmente condivisi e fatti rispettare da istituzioni a loro volta condivise. Quali? Non Facebook né la rete. «Già nel maggio 2017 in Tweeter and Tear Gas. The Power and Fragility of Networked Protest (Yale University Press) la ricercatrice Zeynep Tufekci ha studiato come le reti Internet hanno favorito la mobilitazione popolare delle rivolte della “primavera araba” e il movimento Occupy Wall Street a New York nel 2011. Ma faceva notare che appoggiarsi a reti volatili e contraddittorie rende difficili elaborazione strategica e organizzazione sulla durata, esponendosi invece a ogni manipolazione. Due analisi, del sito americano BuzzFeed il 6 dicembre 2018, e della Fondazione Jean-Jaurés il 14 gennaio 2019 hanno un approccio analogo. Il movimento dei “gilets jaunes” prende corpo in ottobre 2018, quando la petizione di Priscilla Ludovsky contro l’aumento del prezzo dei carburanti è lanciata dal camionista Eric Drouet su Facebook: “Tutti insieme il 17 novembre 2018 per il blocco nazionale contro l’aumento del carburante”». «Ora il rischio è che il movimento si sgonfi e che solo i gruppi estremisti continuino a irrigare la rete. Tanto più che da gennaio 2019 il nuovo algoritmo Facebook privilegia la pubblicazione di amici e gruppi vicini facilitando, secondo la fondazione Jean-Jaurés, la creazione di una “bolla filtrante”: “sembra esistere solo l’attualità dei gilets jaunes e delle centinaia di legami, video e commenti indignati cui è esposto l’internauta”». «Così questo potente movimento sociale, come dice BuzzFeed, potrebbe finir male: “I gilets jaunes si sono costituiti grazie ai gruppi Facebook, è logico che finiscano come i gruppi Facebook: moderati male, rovinati da elementi tossici e pieni di gente con visioni diverse”» (F. Joignot, Facebook, le grand mobilisateur, in «Le Monde des Idées», 29 gennaio 2019, p. 5).

Incompiuta, l’UE è la via al governo sovranazionale, «unico capace di costruire la protezione sociale di domani alla scala necessaria» (Hautcœur, Les libéraux n’ont pas toujours négligé les perdants, cit.) tra i rumori veicolati in rete da imprese esentasse. Supera la democrazia rappresentativa: «registro di comprensione di un sistema politico senza giustizia costituzionale è la “democrazia elettorale” o “rappresentativa”; di un sistema di giustizia costituzionale è la “democrazia continua”» (D. Rousseau, Radicaliser la démocratie. Proposition pour une refondation, Paris, Seuil, 2015, p. 177). «Le società sono uscite dalla barbarie abbandonando il linciaggio per la giustizia; sono entrate nell’era democratica ponendo le regole per un equo processo e un tribunale neutro e imparziale. Nella configurazione democratica moderna in cui il suffragio universale non è più fonte di legittimità, la giustizia istituzionalmente ed eticamente rifondata può essere l’istituto che manterrà la legittimità democratica» (ivi, p. 195).

«L’idea di democrazia continua ha l’ambizione dichiarata di aprire un nuovo ciclo, proporre un pensiero nuovo di democrazia e riconfigurare le sue istituzioni. Trae la sua energia dal popolo concreto attuato in ogni area di attività sociale, mentre la democrazia rappresentativa ne fa un popolo astratto ridotto a esistere solo come elettore; costruisce il bene comune tramite un regime costituzionale concorrente connesso allo spazio pubblico, mentre la democrazia rappresentativa ne riserva la produzione a un corpo di rappresentanti statali ripiegati su sé stessi; incontra la “democrazia degli altri” e si apre all’universale, mentre la democrazia rappresentativa si protegge dietro il principio di sovranità degli Stati-nazione. La democrazia continua è l’istituzionalizzazione prodotta dalle esperienze vissute. Continuamente aperta, dunque, come le esperienze vissute» (ivi, pp. 230-231).

Parlamento, governo e corte di giustizia UE realizzano la costituzione accogliendo le sfide di una globalizzazione che risospinge gli stati, privati di sovranità fiscale, alla barbara giustizia del popolo. La sovranità fiscale è ora sovranazionale e l’UE ha il potenziale per rendere socialmente accettate e partecipate trasformazioni economiche ora in mano a pochi (i ventisei più ricchi possiedono quanto la metà più povera del mondo: Oxfam, Rapporto 2019 su dati UBS). Governo, Parlamento e Corte di Giustizia UE, in dialogo coi cittadini e tra loro, hanno il potere e la responsabilità di attuare, con la fiscalità, la nuova necessaria equità fra trasformazione economica e coesione sociale, genesi stessa dell’UE.

Invece, in Consiglio d’Europa gli stati si sfidano al ribasso sulla fiscalità, in conflitto con l’UE e tra loro: un conflitto per ora solo diplomatico. Ma che uccide già i migranti, mentre i governi più sprovveduti ignorano che i crimini internazionali, come in Kosovo, vivono nella memoria lunga del diritto e degli antagonisti (all’attuale cattiveria di casa nostra si adatta la prognosi di Totò, al funerale in I soliti ignoti: «Oggi a lui domani a te»). “Quando viene la forza è morta la giustizia” è un proverbio nostro, ma con Visegrád facciamo guerra a migranti e UE, dando voce politica all’astio tra vicini di casa e del ciascun per sé dei lager. Intanto Germania e Francia si accordano, leva finanziaria e atomica dell’Europa post Brexit. Direttore dell’Institut français des relations internationales, Thomas Gomart «non esita a parlare di “perdita di controllo, di imballata, persino di panico del sistema internazionale”». «Evocando Tucidide, ricorda che nella storia l’emergere di una nuova potenza è a spese d’una potenza stabilita e spesso porta al conflitto, a meno di non condividere valori e interessi, come fu per Gran Bretagna e Stati Uniti. Un ritorno alla guerra tra stati è dunque possibile in un mondo dominato dalla logica di potenza. È una sfida per i paesi dell’UE vissuti, dopo il 1991, in “insularità strategica” e che di fronte al jihadismo e al ritorno della competizione tra grandi potenze si ritrovano di nuovo costretti “a pensare la guerra”. Le forme potranno essere diverse: guerre ibride o di debole intensità, conflitti nel cyberspazio, conflitti interni agli stati. In tutto questo, Thomas Gomart ne è convinto, “soldato è un mestiere del futuro”» (M. Semo, Les défis d’un monde en mutation, in «Le Monde», 22 gennaio 2019, p. 22).

Già oggi i rischi per gli stati sono gravi e «sorprendentemente in cima alla lista dei sudori freddi che di notte tengono svegli i capi è la collisione col Dipartimento di Giustizia o il Dipartimento del Tesoro USA». «Gli USA hanno molti motivi di fierezza come combattenti della corruzione. Ma per il bene loro e altrui devono trovare un approccio più trasparente, proporzionato e rispettoso dei confini» (Judge dread, in «The Economist», 19 gennaio 2019, p. 12). «L’alea giuridica è tale che le imprese non hanno altra scelta che dichiararsi colpevoli e fornire le prove delle loro colpe. Come rischiare di perdere miliardi, licenza bancaria, accesso ai mercati pubblici, diritto di utilizzare il dollaro? Così, in dieci anni le società europee hanno versato 40 miliardi di dollari» (J.-M. Bezat, Le “racket” de Washington, in «Le Monde», 23 gennaio 2019, p. 23). «Se continua, il crescente ricorso alle azioni legali extraterritoriali finirà col ritorcersi contro. Scoraggeranno le imprese estere a battere i mercati di capitale USA e incoraggeranno Cina e Europa a promuovere le loro valute in concorrenza col dollaro e sviluppare sistemi di pagamento globali escludenti lo Zio Sam» (Judge dread, cit.).

Cina e Europa, non stati nazionali impotenti contro l’arma impropria della giustizia imperiale, e solo se l’Europa avrà un governo invece di un Consiglio di politici nazionali attenti al loro futuro personale nella crescente sudditanza sovranista, tanto apprezzata in USA e nella Federazione Russa.

Una segnalazione dopo le fonti citate in scheda di lettura. «Lo sviluppo delle intelligenze artificiali riattualizza una profezia atroce: sostituiti gli esseri umani con macchine, il lavoro è destinato a sparire. Alcuni si allarmano, altri nella mutazione digitale vedono una promessa di emancipazione fondata su partecipazione, apertura, condivisione. I retroscena di questo teatro delle marionette (senza fili) mostrano però tutt’altro spettacolo. Utenti che alimentano gratuitamente le reti sociali con dati personali e contenuti creativi monetizzati dai giganti del Web. Operatori di start-up dell’economia collaborativa, che in quotidiana connessione più che guidare veicoli o assistere persone producono informazioni su smartphone. Micro-lavoratori che, incollati ai loro schermi a casa o nelle fabbriche dei clic, spingono la viralità dei marchi, filtrano le immagini pornografiche e violente o inseriscono a catena frammenti di testi per software di traduzione automatica. Sfatata l’illusione dell’automazione intelligente, Antonio Casilli fa apparire la realtà del lavoro digitale: lo sfruttamento delle piccole mani dell’intelligenza ‘artificiale’, la miriade sgobbona dei clic sottomessa alla gestione algoritmica delle piattaforme, che riconfigurano e precarizzano il lavoro umano» [Antonio A. Casilli, En attendant les robots. Enquête sur le travail du clic, Seuil 2019, 400 pp., 23 €, quarta di copertina]. «E questo è solo l’inizio». «Mentre leggete queste righe governi e grandi imprese si stanno facendo in quattro per hackerarvi; e se arriveranno al punto di conoscervi meglio di quanto vi conosciate voi, potranno vendervi qualunque cosa, prodotto o politicante che sia» [Yuval Noah Harari, «Il nostro futuro», la Repubblica, 13/01/2019, p. 17]. «Venti dollari per l’accesso a tutto quanto passa sul loro smartphone. È quanto dal 2016 Facebook propone ai 13-35enni», «nel quadro d’un progetto presentato come di “ricerca” dalla rete sociale, per meglio capire il loro uso degli apparecchi connessi» [Morgane Tual, «Facebook paie les ados pour les espionner», Le Monde Éco&Entreprise, 01/02/ 2019, p. 8]. La storia fortunatamente ci dice che «tutti i dittatori sono caduti nella medesima trappola; ciechi essi stessi ai valori della libertà, non riescono a concepire che uomini in disaccordo sul suo significato possano ciò non pertanto unirsi per difendere le loro libertà contro un patente dispotismo» [J. Christopher Herold, L’età di Napoleone, tr.it. Il Saggiatore 1967, p. 270]. Unirsi, ma non nella rete, dove «stento a persuadermi che non abbian potuto presagire in cuor loro e vedere incombente, prima che avvenisse, l’atroce male comune» [Lucrezio, De Rerum Natura (5. 1341-1343), tr. di Renata Raccanelli, «La guerra nei mondi (di Lucrezio)», in Alice Bonadini, Elena Fabbro, Filippomaria Pontani (a cura di), Teatri di guerra, Mimesis 2017, p. 186]: «un’allegoria della operazione di indottrinamento che le ideologie patriottiche hanno fatto tra la fine del XIX e tutta la prima metà del XX secolo, simile a quella che presto i computer avrebbero potuto fare nei confronti della mente umana» [Stefano Iossa, «Dulce et decorum est pro patria mori», ivi, p. 267].







 
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