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Co-co-co, e finalmente coesione

di Giuseppe Gario
  Co-co-co, e finalmente coesione
Data di pubblicazione su web 06/03/2019  

Coesistenza” è la parola-chiave della democrazia rappresentativa: continua ricerca di equilibri tra gruppi di interesse e umori sociali oggi travolti dalla globalizzazione. “Consenso” lo è della democrazia diretta: i gruppi d’interesse manipolano la volontà popolare con la rete e i referendum. “Controllo” lo è della democrazia autocratica che opprime le minoranze. Forme di potere tipicamente nazionalistiche, degradano l’una nell’altra. “Coesione” è infine la parola-chiave della democrazia continua: risposta anche fiscale sovranazionale per attuare le politiche necessarie contro le ingiustizie della globalizzazione, su scala nazionale, irrimediabili. Democrazia continua è il dialogo sistematico tra Parlamento, Governo e Corte di Giustizia d’Europa per tenere la legislazione e l’organizzazione dei beni pubblici europei al passo con la globalizzazione. Su fondamenti costituzionali, la Corte agisce in risposta alle questioni poste da cittadini e associazioni non solo politiche, dai media e dai fatti: concretizza la partecipazione che nelle altre forme di democrazia è mistificata nei sondaggi e nelle reti sociali.

Coesa è la democrazia se combatte le ineguaglianze globali, tra errori e conflitti, ma con strumenti, anche fiscali, idonei che non possono darsi le democrazie co-co-co, che democrazia non sono, inclusa quella rappresentativa. Lo spiegava l’abate Sieyès il 7 settembre 1789: «i cittadini che si nominano dei rappresentanti rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi la legge; non hanno volontà specifiche da imporre. Se dettassero le loro volontà, la Francia non sarebbe più questo Stato rappresentativo; sarebbe uno Stato democratico. Il popolo, ripeto, in un paese che non è una democrazia (e la Francia non saprebbe esserlo) non può agire che attraverso i suoi rappresentanti» (D. Rousseau, Radicaliser la démocratie. Proposition pour une refondation, Paris, Seuil, 2015, p. 24). Dopo più di due secoli, democratici bisogna imparare a esserlo, come tutto ciò che conta nella vita.

«In generale, sembra che il livello di sfiducia verso il potere politico sia correlato alla diffidenza per gli altri che caratterizza una popolazione». «Per fare solo un esempio, il Brasile, uno dei paesi con la più forte sfiducia politica, è anche la patria della diffidenza interpersonale, dato che solo il 2,8% dei brasiliani dichiara di avere fiducia negli altri. Così, in un clima politico molto teso, la voce di colpi di arma da fuoco sparati in città spinge un certo numero di persone a restare in casa per non rischiare di subire le violenze di un improvviso conflitto civile. Così facendo contribuiranno ad accreditare l’idea che si preparano avvenimenti gravi, iscritti in un processo di circolo vizioso cumulativo» (G. Bronner, La démocratie des crédules, Paris, PUF, 2013, pp. 5-6).

Al contrario, «il mutamento sociale e politico – nel caso, i diritti umani – si realizza quando molte persone hanno esperienze affini, non perché vivono nello stesso contesto sociale, ma perché tramite le loro interazioni, visioni e interpretazioni creano in concreto un nuovo contesto sociale. In breve, i resoconti di mutamenti storici devono alla fin fine dar conto del cambiamento delle menti individuali. Perché i diritti umani divengano in sé evidenti la gente comune deve avere una nuova consapevolezza che viene da una nuova forma di sensibilità» (L. Hunt, Inventing Human Rights. A History, New York, Norton, 2007, p. 34). «Le dichiarazioni – 1776, 1789 e 1948 – fornirono una pietra miliare per i diritti umani attingendo alla logica di ciò “che non si può più accettare” e contribuirono a loro volta a non ammettere ulteriori violazioni. In sé il processo ha avuto e ha un’indubbia circolarità: conosci il significato dei diritti umani perché senti in te angoscia per la loro violazione. La loro verità può essere paradossale in questo senso, e tuttavia i diritti umani sono sempre lampanti» (ivi, p. 214).

Nei moti per il pane nella Milano secentesca «s’implorava da’ magistrati que’ provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornare l’abbondanza» (A. Manzoni, I promessi sposi, Milano, Hoepli, 19982, p. 266). Un «miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro» (ivi, pp. 288-289). Allora in piazza, oggi in rete, non si rifiuta l’élite, anzi la si cerca per farci promettere ciò che vogliamo e per coprire il nostro rifiuto/incapacità/impossibilità di maturare insieme una nuova forma di sensibilità su ciò “che non si può più accettare”: oggi, il “prima io, mors tua vita mea”.

«La fiducia è necessaria a ogni vita sociale, e più ancora nelle società democratiche, organizzate intorno ai progressi della conoscenza e della divisione del lavoro intellettuale. In effetti, a misura della produzione di questa conoscenza, la parte di questa competenza condivisa che ognuno può sperare di gestire diminuisce. Più si sanno delle cose, meno è quanto io ne so». «Ciò significa che una società fondata sul progresso della conoscenza per paradosso diviene una società di convinzioni per delega e perciò della fiducia» (Bronner, La démocratie des crédules, cit., p. 7). «È difficile dare conto di un fenomeno di massa invocando stupidità o disonestà, come troppo spesso si fa dinanzi a credenze sconcertanti. Invece io scommetto che le persone hanno dei motivi di credere ciò che credono e che il loro dubbio guadagna terreno sviluppando anche argomenti apparentemente molto efficaci. Avere delle ragioni di credere non significa che si ha ragione di credere, perché a spingere il consenso, al di là dei nostri motivi ed emozioni, sono la coerenza, il potere argomentativo e la coincidenza con ciò che ci si vuole far credere siano fatti concreti, suggestioni ingannevoli che pretendono di spiegare il mondo. Ciò che rivelano queste suggestioni ingannevoli è il volto oscuro della nostra razionalità» (ivi, p. 19).

«Marzo 2018 ha portato quasi quotidianamente rivelazioni sugli involontari danni dovuti ai social media. Science ha pubblicato uno studio di professori del MIT sulle notizie controverse pubblicate in inglese su Twitter. Lo studio constata che vi si condividono disinformazioni e finte notizie il 70 per cento più spesso delle vicende fattuali e le si diffondono circa sei volte più rapidamente. Nulla dice che potrebbe trattarsi solo di Twitter. Lo studio ha portato ulteriori prove che la parte oscura dei social network può essere sistemica, guidata da scelte che favoriscono alcuni degli aspetti peggiori del comportamento umano» (R. McNamee, Zucked. Waking Up to the Facebook Catastrophe, New York, Harper Collins, 2019, p. 177). È un nuovo mercato globale, il mercato cognitivo.

«Mercato cognitivo è un’immagine idonea a rappresentare il finto spazio che diffonde i prodotti che informano la nostra visione del mondo: ipotesi, credenze, informazioni, ecc. È preferibile a mercato dell’informazione perché informazione è un indirizzo di ristorante o un numero telefonico, mentre un prodotto cognitivo implica un’informazione organizzata in discorso esplicito o implicito su ciò che è vero e buono» (Bronner, La démocratie des crédules, cit., p. 23). «I regimi totalitari implicano la messa sotto tutela del mercato cognitivo, almeno su certi temi. Sarà difficile esprimere fede cristiana coi talebani al potere» (o con gli usurpatori del cristianesimo, come in Ungheria e Polonia). «Ma l’oligopolio cognitivo può esistere anche in democrazia, non per costrizione politica, ma perché la verità appare tanto abbagliante da oscurare le idee alternative» (ivi, p. 24). Internet ha posto tutte le condizioni «perché l’errore di conferma possa esprimere la piena misura delle sue capacità di distoglierci dalla verità», come mostra lo studio MIT e come già scriveva Francesco Bacone (Novum Organum, 1620, aforisma 46). «Così procede pressoché ogni superstizione, in materia di oroscopi, sogni, presagi, vendette divine, ecc. Gli uomini, infatuati da queste vane apparenze, prestano attenzione ai fatti se rispondono alle loro attese; ma in caso contrario, di gran lunga il più frequente, si voltano e passano oltre» (ivi, p. 35-6).

«Sono passati quasi nove anni da che per primo ho osservato attori sleali sfruttare gli algoritmi e il modello di business di Facebook per mettere in pericolo gente innocente. Non avrei immaginato, allora, il male alla democrazia, alla salute pubblica, alla privacy e alla concorrenza che sarebbe stato permesso tramite piattaforme internet che amavo usare. Se vivete negli Stati Uniti, in UK o in Brasile, le politiche del vostro paese sono state trasformate in modi che potranno durare per generazioni. In Myanmar o Sri Lanka, la vostra vita può essere stata minacciata. In ogni paese con accesso internet, le piattaforme hanno trasformato la società per il peggio. Stiamo portando avanti un esperimento evoluzionistico incontrollato, e i risultati sono a tutt’oggi terrificanti. Come popolo e cittadini non siamo preparati al caos sociale e al tumulto politico liberati dalle piattaforme internet. Sono emerse così velocemente e la loro influenza sia sulle persone che sugli affari è cresciuta così in fretta, che hanno sopraffatto le istituzioni culturali, politiche e legali» (McNamee, Zucked, cit., pp. 277-8).

«La minaccia è lì. Ben descritta dagli 007. Una novità che non s’era mai vista in una relazione sullo stato della sicurezza in Italia. L’ondata razzista minaccia di condizionare il prossimo voto europeo. Addirittura come ha fatto il terrorismo». «Nella lunga lista di minacce che agita l’intelligence c’è […] il sospetto di manine straniere abili nel pilotare i social media […] “interferendo finanche con processi fondamentali per la vita democratica, come le elezioni”» (L. Milella, La relazione dei servizi segreti. 007, ALLARME RAZZISMO, in «la Repubblica», 1° marzo 2019, p. 28). Dopo USA, UK, Brasile ora Steve Bannon opera dall’Italia e il managing director della sua campagna populista alle europee, il capo del Partito Popolare vallone d’estrema destra Mischaël Modrikamen, «ben consapevole delle reticenze europee, insiste però sul contributo di Bannon “in materia di dati”» (P. Bernard-J.B. Chastand, La marche contrariée de Bannon sur l’Europe, in «Le Monde», 21 agosto 2018, p. 2). «A lui, l’ex demiurgo consigliere di Donald Trump ha affidato il compito di federare, in un unico e ramificato gruppo, detto The Movement, i populisti di tutta Europa», scrive Luciana Grosso, che gli chiede: «a tal proposito: che si fa con l’Unione europea? Non è faccenda da poco, visto che uno dei (pochi) partiti che aderiscono a The Movement, la Lega, potrebbe essere il più votato di tutti alle prossime elezioni: “Non rappresenta più niente per nessuno. Non vuol dire che ogni paese andrà per conto suo, ma che l’Ue dovrà per forza di cose diventare un’Unione di stati autonomi e magari limitarsi a tenere insieme accordi commerciali o economici”» (Viaggio nella tana del lupo populista, «IL FOGLIO quotidiano», 22 febbraio 2019, pp. 1 e 4).

A domanda, il suo capo Bannon precisa il quadro: «Gli Stati Uniti sono la nazione leader dell’unione giudeocristiana occidentale, un sistema che abbiamo ereditato da 5.000 anni di storia, che va da Atene a Gerusalemme, da Roma a Londra, fino a Washington. E di cui fanno parte anche il Brasile, il Giappone, la Corea del Sud, l’India, l’Australia… Un modello basato su valori come l’autonomia, la libertà individuale e su quella cosa ingarbugliata che è la democrazia» (A. Rico, Amici 5 stelle, fate le grandi opere, «La Verità», 25 febbraio 2019, p. 7). Nella voluta confusione globalizzata e senza freni, gli stati sono messi sul mercato. Nella patria del parlamentarismo, Brexit conferma che la democrazia rappresentativa non è democrazia, e, quando i rappresentanti hanno forti contrasti di interesse, la loro capacità di governo svanisce, sulla spinta di chi vuole autoritarismo, con l’alibi del referendum. In USA Trump è già all’autoritarismo dei tweet, con grande (pur se precario) beneficio del mercato, libero anzitutto dalle tasse. Money first.


Prima i soldi. Accolti nella reputazione euro abbiamo preferito i condoni fiscali alla riduzione del debito. E ora? Considerato «che l’interesse di Salvini e Di Maio a mantenere le posizioni di potere acquisite (e difficilmente replicabili) prevarrà», a Enrico Morando «sembra facile prevedere che a primavera inoltrata – quando comincerà la sessione di bilancio europea, con la presentazione del Documento di economia  e finanza 2020-2022 – le forze di governo torneranno a parlare di fuoruscita dell’Italia dall’euro, facendo riesplodere l’instabilità finanziaria e l’incertezza» (Perché il governo tornerà a mettere in discussione l’euro, «IL FOGLIO quotidiano», 22 febbraio 2019, p. 3). Salvini si lascia sfuggire in tv che coi loro risparmi «gli italiani ci daranno una mano». È vero, grandi risparmiatori, possiamo dare una mano, eccome. A chi, però? Al libero mercato e ai suoi ascari/associati politici, o al nostro futuro? «“All’estero scuole e trasporti migliori”. Cosa invidiano gli italiani ai paesi Ue», titola LA STAMPA il suo ultimo sondaggio LaSt (3 dicembre 2018, p. 5). La scuola è l’area più strategica nell’era dell’Intelligenza Artificiale e dell’innovazione implicita quando si lavora con persone esperte nei sempre più importanti ambiti della conoscenza, oltre il «volto oscuro della nostra razionalità» con la nuova consapevolezza che nasce dalla nuova sensibilità sui nostri (di tutti) diritti umani. Che anche da noi sono calpestati, e di proposito, perché sono la sola concreta alternativa al mercato senza freni. L’alternativa dipende solo da noi, Non da una élite, quale che sia. 







 
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