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Lo spirito del mondo nella vasca da bagno

di Fernanda Mancini
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Data di pubblicazione su web 16/09/2019  

«Si trova nella vasca da bagno, il crogiolo dello spirito del mondo da cui esce uno splendente Hermes, dorato come il sole vincitore (Sol invictus), che si erge sui protagonisti della vicenda, stretti a lui poco più in basso nella tinozza dello “Spirito del mondo”». Così termina la pièce di Alexander Eisenach Felix Krull. Stunde der Hochstapler (Felix Krull. L’ora degli imbroglioni), che l’autore e regista ha liberamente tratto dal romanzo di Thomas Mann Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull (Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull). Mann iniziò a scriverlo nel 1910 e lo concluse – con un lavoro segnato da molti intervalli – poco prima della morte.

La pièce è stata presentata in prima assoluta a Berlino il 16 agosto, ad apertura della nuova stagione del Berliner Ensemble. Un lancio a sorpresa per un teatro – come quello che fu di Bertolt Brecht – conosciuto per il suo repertorio utopico critico politico. Lo spettacolo ha fatto parlare di sé raccogliendo molte critiche.

Felix Krull per Eisenach è un personaggio ermetico. La storia che si dipana sul palcoscenico snocciola, come in un rosario, citazioni, evidenti o sottese, che si riferiscono ai grandi del pensiero tedesco, da Goethe a Schopenhauer a Nietzsche, e anche a Hegel, uno che ha fatto dello spirito del mondo il baricentro della propria filosofia. Ed ecco un’altra ragione per la quale la sorpresa si tramuta in scandalo: queste citazioni non sono cólte decorazioni, Felix Krull è un lavoro filosofico.


Un momento dello spettacolo
© Berliner Ensemble

Se il romanzo di Mann è un’opera ironica, la rielaborazione di Eisenach è grottesca. Se la fonte letteraria non ha un finale, nella pièce quel finale c’è. Come si legge in buona parte della letteratura critica su Mann, Felix Krull è un personaggio ermetico; non da meno lo è nella riduzione teatrale di Eisenach. In entrambi i casi infatti i personaggi vengono chiamati imbroglioni: “imbroglione” è l’appellativo del briccone divino, lo psicopompo Mercurio, il dio guardiano delle soglie e dei passaggi, dunque delle trasformazioni e trasmutazioni. Scriveva Mann in una lettera a Kereny: «Hermes, è la mia divinità preferita». Ed aveva ben presente quanto ne aveva scritto Walter Friedrich Otto: «Hermes mostra alcune qualità arcaiche […] ricordi arcaici e magici sono per esempio le ali ai piedi e il mantello infernale che lo rende invisibile».

Nella pièce Felix Krull guarda con ironia consapevole e critica le sue vittime, prima di abbandonarle lasciandole cuocere nel loro proprio brodo. Indicato nel titolo come l’imbroglione, in realtà è il Sol invictus: vincitore perché finalmente il meccanismo da lui stesso messo in moto, da bravo briccone, produce il risultato cui voleva arrivare: la trasformazione del mondo. È un briccone, ma divino. Così lo ha voluto Mann. Dunque i suoi scherzi e le sue trasformazioni non sono casuali. Il gioco è divino e mira a un fine preciso. Le molteplici relazioni di seduzione che imbastisce con uomini e donne sono basate sull’inganno, di cui è consapevole, come ci fa capire la elegante mimica scenica di Marc Oliver Schulze. Tali seduzioni conducono al nulla, si disfano consumate dal “volere” dei personaggi, dalla sete di potere che li trascina alla distruzione e all’autodistruzione, e che Krull ha semplicemente messo in movimento.



Un momento dello spettacolo
© Berliner Ensemble

Spesso il protagonista è stato interpretato come un essere incapace di concludere qualcosa, di inserirsi e condurre una decente vita borghese. A me pare piuttosto che qui sia un deus ex machina, che abbia l’argento vivo addosso, che sia il mercurio vitale, guardiano delle soglie e “psicopompo” della trasformazione dell’umanità verso un vivere migliore.

Il mercuriale Sol invictus, uscendo grottescamente vittorioso sul popolo, che ha spinto a una nuova coscienza di sé e condotto sulla strada della salvezza, annuncia che la trasformazione del mondo è avvenuta sotto l’egida di Amore. Questo è il segreto che egli annuncia, che smentisce il nichilismo imperante, e che trasforma la vuota apparenza, il nulla dei personaggi e dei loro falliti desideri, nell’apparizione dei molti volti della verità. La capacità dell’Amore di determinare la trasformazione è suggerito in un sussurro, poco prima della fine della pièce, da una scienziata in camice bianco (un’umanista, forse un medico o una ricercatrice biologica in veste d’alchimista): Amore è l’ingrediente che trasforma l’animale, preda dell’istintuale volontà di potenza, in uomo. E trasforma anche il nichilismo imperante in vita positiva e speranza. Per Eisenach esso toglie alla “volontà” schopenhaueriana anche il potere che questa ha sul mondo e lo restituisce agli uomini: a ogni uomo che si tenga lontano dall’affermazione del suo volere su quello degli altri in una lotta all’ultimo sangue. Nietzsche e Schopenhauer sono i riferimenti citati nel corso di questa messa in scena, evocati in quanto il loro pensiero informa la coscienza della nostra società che con esso interpreta sé stessa e, si dice in scena, la realtà della società di massa e delle nostre problematiche democrazie, basate sul nulla, e dell’uomo, ormai solo individuo, singolo, completamente separato dalle sue radici e dalla comunità, preda delle sue nevrosi.

Nevrosi di uno e di tutti. Questa generalizzazione non basta a creare legame sociale e neppure quello con sé stessi. Così vediamo sul palcoscenico che ogni personaggio vive seguendo il proprio “Wille”, la propria volontà di potenza, di supremazia sugli altri, vicini e lontani, in una follia di perversione alla fin fine e innanzitutto autodistruttiva. Secondo il regista che interpreta o meglio reinterpreta Mann, alla base di questo homo nevroticus e della filosofia da cui nasce c’è il nichilismo assoluto, l’idea dell’essere come ciò che c’è e che poi non c’è più, che nasce e muore, preda al più di un’indifferenza cosmica che non lo salva dal precipizio verso cui lui e la sua-nostra società è avviata. Ma questa indifferenza cosmica si rivela, nella pièce, un errore di valutazione, uno stare a guardare le cose ponendosi da un punto di vista sbagliato. Perché e come sia ciò possibile non è argomento di questo lavoro, ma forse – ci auguriamo –  del prossimo, che il regista sta scrivendo per il debutto già annunciato per dicembre. 



Un momento dello spettacolo
© Berliner Ensemble

Chissà se Eisenach conosce il nostro filosofo nazionale, Emanuele Severino, che da cinquant’anni predica che è sbagliato considerare così l’essere, l’uomo e tutte le cose del mondo, perché tutto invece è. Ma per capirlo, sostiene Severino, occorre innanzitutto cambiare il modo di vedere, cambiare la consapevolezza che l’uomo ha di sé stesso, forse ponendosi di fronte a uno specchio diverso, o azzerando con coraggio le vecchie consapevolezze autodistruttive.  Occorre avere il coraggio di sottoporsi a un esperimento in laboratorio, o di lasciarsi andare nella pignatta del Weltgeist (lo Spirito del mondo) per uscirne vittoriosamente altro (come dice il regista e non Severino). E sempre Eisenach fa dire alla alchimista, grazie all’Amore, la bugia che l’apparenza ha regalato al mondo.

Perché molto si parla di apparenza in questo lavoro teatrale: i personaggi ne parlano in molti modi (c’è chi vuole apparire come non è, c’è il gioco di specchi dell’inganno di come ci vedono gli altri, l’apparenza esaltata di un novello Faust, quella evocata parlando di Wagner, l’inconsistenza di non essere davvero qualcosa, l’apparenza di dama di una sciagurata e infelice sadomaso, ecc.), e alla fine si capisce che il concetto di “apparenza”, di maschera, che è per il regista di importanza centrale, nello sviluppo teatrale trasforma il suo significato (custodito già nella etimologia della parola). Alla fine non è più il vuoto, il niente, ma il darsi allo sguardo della verità, proprio attraverso quella che ci era sembrata una vuota maschera. Così allora lo spettatore capisce che l’apparenza non è bugia, come l’aveva erroneamente (un altro errore, o ancora un tiro burlone del divino imbroglione?) pensata. 



Un momento dello spettacolo
© Berliner Ensemble

L’altro riferimento importante è Goethe, citato poco, ma che importa se ci si ricorda che non differentemente finisce il suo Faust, cioè con il trionfo di Amore. Certo Faust sale in cielo, e i personaggi del Felix Krull rimangono in terra, ma per entrambi la trasformazione c’è ed è opera di Amore. Spesso, inoltre, anche Mefistofele è stato considerato uno jellato deus ex machina, in realtà travolto dall’impetuoso Faust posseduto dal demone dell’instabilità e dell’avventura, che brucia la vita scendendo nelle profondità delle esperienze, alla ricerca della verità oltre l’apparenza, altro elemento comune con questa pièce.

Spesso l’inganno, lo scherzo, passa attraverso una certa qualità erotica dell’attrazione esercitata da Felix; ciascun personaggio la imbastisce e consuma a modo suo, per ritrovarsi alla fine sconfitto dal suo stesso operare, dal suo modo di averla voluta, concepita. Quando alla fine la parola magica il «qualcosa che fa la differenza» si svela essere l’Amore, allora si apre una prospettiva nuova, e su di essa il regista chiude lo spettacolo invitandoci a riflettere. O forse tutta questa storia è l’ennesimo tiro burlone di quell’impostore grottesco e spietato di Felix Krull?




L’imbroglione Felix Krull
cast cast & credits
 




Un momento dello spettacolo in scena al Berliner Ensemble fino al 31 ottobre 2019




 
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