drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Che colore ha l’American Skin?

di Nicola Rakdej*
  American skin
Data di pubblicazione su web 04/09/2019  

Interrogandosi sulle ragioni che hanno spinto il veterano Spike Lee a produrre il secondo lungometraggio del giovane Nate Parker, si potrebbe pensare a un legame nato sotto il segno di Nascita di una Nazione di Griffith. Caposaldo della storia del cinema, il film del 1915 ha sia il pregio di aver gettato le basi del linguaggio cinematografico, sia il difetto di veicolare una tesi politica reazionaria: giustificare l’operato violento del Ku Klux Klan per sostenere l’ideologia di un popolo afroamericano che non avrebbe mai dovuto essere integrato nella società statunitense. Nella sequenza iniziale dello splendido Blackkklansman (2018), ultima opera di Lee, vengono mostrate e spiegate alcune scene cruciali di Nascita di una Nazione, al fine (ironico) di istruire la platea sulla discriminazione razziale (il fatto che a commentarle sia l’attore Alec Baldwin è molto significativo, lui che ha interpretato una parodia del presidente Trump al Saturday Night Live). Analogamente, nel primo film di Parker (The Birth of a Nation - Il Risveglio di un popolo, 2016), si cita fin dal titolo il capolavoro di Griffith per rovesciarne il senso attraverso il racconto della vera storia di uno schiavo nero che nella prima metà dell’Ottocento guida un movimento di liberazione in Virginia.

Per entrambi i registi afroamericani il cinema è politica, storia, impegno sociale, informazione, lotta continua contro le ingiustizie. E in quest’ottica American Skin di Parker, presentato nella sezione “Sconfini” alla 76° Mostra di Venezia, mostra molte affinità con la filmografia di Lee (presente in Laguna per seguirne la proiezione), in particolare con il discusso primo capolavoro Fa’ la cosa giusta (1989).

Una scena del film
Una scena del film
© Biennale Cinema 2019

Lincoln Jefferson (Parker stesso), veterano dei Marines, lavora come custode in un prestigioso liceo della California dove ha fatto iscrivere il figlio quattordicenne KJ. Una notte, Lincoln e KJ vengono fermati dalla polizia: quello che doveva essere un semplice controllo di routine termina con il ferimento mortale del ragazzo. Un tribunale stabilisce la non sussistenza del fatto, permettendo all’agente responsabile Randall (Beau Knapp) di tornare in servizio. Sgomento per l’ingiustizia subita, Lincoln organizza un’irruzione nel distretto in cui lavora il poliziotto al fine di trovare un degno finale alla drammatica vicenda.

Fa’ la cosa giusta di Lee metteva in scena le tensioni sociali dell’America di fine anni Ottanta (nella parte conclusiva del secondo mandato di Reagan), ambientando la vicenda nel microcosmo di un quartiere di Brooklyn. Dopo la morte non-così-accidentale di un ragazzo nero per mano di un agente della polizia bianco, il protagonista Mookie (interpretato dallo stesso Lee) prendeva la drastica decisione di mettere a ferro e fuoco la pizzeria italoamericana in cui il tragico evento era accaduto. American Skin trasferisce la medesima riflessione ai nostri giorni, nell’America di Trump in cui sono risorti atteggiamenti che si pensavano sopiti.

Anche la forma è aggiornata sul contemporaneo, inserendosi in quelle sperimentazioni di estetica digitale che hanno avuto un recente sviluppo nel thriller “schermico” Searching (di Aneesh Chaganty, 2018). Grazie al pretesto di un giovane studente universitario che vuole creare un documentario per la sua tesi di laurea, il film di Parker assume i tratti di un mockumentary, di un intelligente collage di schermi (i video della sorveglianza, la homepage di un computer o di un cellulare, l’interfaccia di applicazioni per le videochiamate, i notiziari del telegiornale, ecc.), al fine di ragionare sul potere emotivo dell’effetto di realtà ma anche, all’opposto, sulla facilità con cui certe immagini possano essere ritrasformate semanticamente per scopi totalmente differenti. Ecco che allora il cineasta statunitense, mettendo sé stesso in prima linea (come a suo tempo fece Lee), vuole incastonare una storia di finzione nella realtà più cruda e commovente, per soddisfare le numerose domande che in molti si stanno ancora ponendo.

Una scena del film
Una scena del film
© Biennale Cinema 2019

Un po’ verboso e semplicistico nella parte centrale, American Skin riprende le considerazioni del passato e le amplifica, rovesciando continuamente i punti di vista a favore di un quadro generale che non può essere ingabbiato in stereotipate posizioni dualistiche (dal padre all’agente, dalla famiglia ai giornalisti, dalla polizia ai detenuti), a maggior ragione se a essere “giustiziato fintamente” non è tanto l’agente bianco, quanto l’intera società che dall’alto dà direttive prive di sfumature o di attaccamento alle realtà più piccole, quotidiane e personali («sono stato addestrato così, ad estrarre l’arma in caso di percepito pericolo, ad andarmene a casa dopo una sparatoria»).

Straziante e stratificata, l’opera seconda di Parker è un altro tassello fondamentale di un cinema non rivolto esclusivamente alla popolazione afroamericana, bensì dal respiro universale. 


*Dottore in Scienze dello spettacolo presso l'Università di Firenze.

Impaginazione di Ludovico Peroni, dottorando in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze.



American skin
cast cast & credits
 

Il regista del film Nate Parker
Il regista Nate Parker



 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013