Interrogandosi sulle ragioni che hanno spinto il
veterano Spike Lee a produrre il secondo
lungometraggio del giovane Nate Parker,
si potrebbe pensare a un legame nato sotto il segno di Nascita di una Nazione
di Griffith. Caposaldo della storia
del cinema, il film del 1915 ha sia il pregio di aver gettato le basi del
linguaggio cinematografico, sia il difetto di veicolare una tesi politica
reazionaria: giustificare loperato violento del Ku Klux Klan per sostenere lideologia
di un popolo afroamericano che non avrebbe mai dovuto essere integrato nella
società statunitense. Nella sequenza iniziale dello splendido Blackkklansman
(2018), ultima opera di Lee, vengono mostrate e spiegate alcune scene
cruciali di Nascita di una Nazione,
al fine (ironico) di istruire la platea sulla discriminazione razziale (il
fatto che a commentarle sia lattore Alec
Baldwin è molto significativo, lui che ha interpretato una parodia del
presidente Trump al Saturday Night
Live). Analogamente, nel primo film di Parker (The Birth of a Nation - Il
Risveglio di un popolo, 2016), si cita fin dal titolo il
capolavoro di Griffith per rovesciarne il senso attraverso il racconto della
vera storia di uno schiavo nero che nella prima metà dellOttocento guida un
movimento di liberazione in Virginia. Per entrambi i registi afroamericani il cinema è
politica, storia, impegno sociale, informazione, lotta continua contro le
ingiustizie. E in questottica American Skin di Parker, presentato nella
sezione “Sconfini” alla 76° Mostra di Venezia, mostra molte affinità con la
filmografia di Lee (presente in Laguna per seguirne la proiezione), in
particolare con il discusso primo capolavoro Fa la cosa giusta (1989).
Una scena del film © Biennale Cinema 2019 Lincoln Jefferson (Parker stesso), veterano dei
Marines, lavora come custode in un prestigioso liceo della California dove ha
fatto iscrivere il figlio quattordicenne KJ. Una notte, Lincoln e KJ vengono
fermati dalla polizia: quello che doveva essere un semplice controllo di
routine termina con il ferimento mortale del ragazzo. Un tribunale stabilisce
la non sussistenza del fatto, permettendo allagente responsabile Randall (Beau Knapp) di tornare in servizio.
Sgomento per lingiustizia subita, Lincoln organizza unirruzione nel distretto
in cui lavora il poliziotto al fine di trovare un degno finale alla drammatica
vicenda. Fa la cosa giusta di Lee metteva in scena
le tensioni sociali dellAmerica di fine anni Ottanta (nella parte conclusiva
del secondo mandato di Reagan), ambientando la vicenda nel microcosmo di un
quartiere di Brooklyn. Dopo la morte non-così-accidentale di un ragazzo nero
per mano di un agente della polizia bianco, il protagonista Mookie
(interpretato dallo stesso Lee) prendeva la drastica decisione di mettere a
ferro e fuoco la pizzeria italoamericana in cui il tragico evento era accaduto.
American Skin trasferisce la medesima riflessione ai nostri giorni,
nellAmerica di Trump in cui sono risorti atteggiamenti che si pensavano sopiti. Anche la forma è aggiornata sul contemporaneo,
inserendosi in quelle sperimentazioni di estetica digitale che hanno avuto un
recente sviluppo nel thriller “schermico” Searching (di Aneesh Chaganty, 2018). Grazie al
pretesto di un giovane studente universitario che vuole creare un documentario
per la sua tesi di laurea, il film di Parker assume i tratti di un mockumentary,
di un intelligente collage di schermi (i video della sorveglianza, la homepage
di un computer o di un cellulare, linterfaccia di applicazioni per le
videochiamate, i notiziari del telegiornale, ecc.), al fine di ragionare sul
potere emotivo delleffetto di realtà ma anche, allopposto, sulla facilità con
cui certe immagini possano essere ritrasformate semanticamente per scopi
totalmente differenti. Ecco che allora il cineasta statunitense, mettendo sé
stesso in prima linea (come a suo tempo fece Lee), vuole incastonare una storia
di finzione nella realtà più cruda e commovente, per soddisfare le numerose
domande che in molti si stanno ancora ponendo.
Una scena del film © Biennale Cinema 2019 Un po verboso e semplicistico nella parte
centrale, American Skin riprende le considerazioni del passato e le
amplifica, rovesciando continuamente i punti di vista a favore di un quadro
generale che non può essere ingabbiato in stereotipate posizioni dualistiche
(dal padre allagente, dalla famiglia ai giornalisti, dalla polizia ai detenuti),
a maggior ragione se a essere “giustiziato fintamente” non è tanto lagente
bianco, quanto lintera società che dallalto dà direttive prive di sfumature o
di attaccamento alle realtà più piccole, quotidiane e personali («sono stato
addestrato così, ad estrarre larma in caso di percepito pericolo, ad andarmene
a casa dopo una sparatoria»). Straziante e stratificata, lopera seconda di
Parker è un altro tassello fondamentale di un cinema non rivolto
esclusivamente alla popolazione afroamericana, bensì dal respiro universale.
*Dottore in Scienze dello spettacolo presso l'Università di Firenze. Impaginazione di Ludovico Peroni, dottorando in Storia dello spettacolo presso lUniversità di Firenze.
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