Quando la Warner Bros. decise di chiudere
il DC Extended Universe, il progetto di riunire in una stessa trama “ad episodi
filmici” tutti i supereroi principali della DC comics (per intenderci, alla
maniera della Disney-Marvel), era ormai chiaro che ai piani alti si stesse
pensando a un cambiamento radicale rispetto a un passato fatto di risultati
altalenanti. Pur essendo ancora legati allestetica di Zack Snyder – colui che ha dato il via all“estensione” con le
discusse regie di Luomo dacciaio (2013) e Batman V Superman: Dawn
of Justice (2016) –, Aquaman (di James Wan, 2018) e Shazam! (di David Sandberg, 2018) avevano già al loro interno tracce di un
cambio di rotta: una spiccata ironia lontana dalloscurità snyderiana,
unattitudine allavventura oltre lesistenzialismo sofferente di Superman e
Batman, uneccessiva luminosità al fine di scacciare le ombre dei film
precedenti. Ma questi due casi si sono rivelati “liquidi”, a metà tra
lintrattenimento più frivolo e una voglia insoddisfatta di uscire dai confini
soliti.
Così, in un marasma di prese di posizioni
incerte e varietà di registri, si inserisce linedita origin story di Joker,
film scritto e diretto da Todd Phillips
(sua la trilogia di Una Notte da Leoni) presentato in Concorso alla 76°
Mostra di Venezia; un precedente significativo quello di un cinecomic
allinterno del mondo festivaliero. È talmente diverso nella forma e negli
intenti da quello cui lultima DC ci ha abituato (caso a parte la trilogia del Cavaliere
Oscuro di Christopher Nolan),
che Joker non presenta nemmeno il logo della casa di fumetti nei titoli
iniziali; ancora più palese quindi la voglia non solo di staccarsi dal
fallimento del DCEU, ma anche di creare qualcosa di nuovo che possa sganciarsi
completamente dallidea tradizionale di un film tratto da un fumetto.
Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è un clown “a tempo perso” che subisce le tensioni
politiche e sociali di una Gotham City ambientata alla fine degli anni
Settanta. Il suo sogno è diventare uno stand-up comedian, così da poter
essere ospitato nel cabaret televisivo del suo idolo Murray Franklin (Robert De Niro). Purtroppo la sua
malattia mentale gli impedisce di ottenere i risultati che desidera: già
detenuto allinterno del manicomio di Arkham, non riesce a trattenersi dal
ridere quando si trova a dover affrontare situazioni di imbarazzo, di paura o
di dolore. Arthur farà di tutto per cambiare la propria vita, girovagando nei
meandri di una città al collasso che aspetta qualcuno in grado di salvarla.
Una scena del film
© Biennale Cinema 2019
Il film si sviluppa su unideale linea
verticale: la Gotham “bassa”, ricoperta di spazzatura e ratti che fuoriescono
dalle fogne, e la Gotham “alta” degli uomini di successo e dei politici avidi
di potere. In questa sfasatura tra mondo reale e desiderato si muovono per
orizzontale le personalità fragili che non riescono ad adattarsi né alluno né
allaltro: né ai fumi maleodoranti della metropolitana né alle grandi cene di
gala. Arthur è una di queste “anime erranti” a causa della malattia che lo
attanaglia e che lo rinchiude in una campana di vetro. È sufficiente una
singola sequenza per accorgersene: mentre tutti ridono ai racconti di un
cabarettista, lui prende appunti sul mestiere; mentre tutti stanno in silenzio
perché è appena iniziata la nuova battuta, lui ride (e non si capisce bene se
di gusto o per riflesso ritardato).
Stufo di non essere ben accetto da nessuna
delle due parti di Gotham, pestato dai piccoli criminali come dallavido Thomas
Wayne (per motivi che potrebbero legarlo indissolubilmente a Bruce Wayne),
Arthur pensa che lunica via duscita sia conoscere listrionico Murray
Franklin (un divertentissimo De Niro
nel ruolo che fu di Jerry Lewis in Re
per una Notte di Scorsese, 1982)
per ottenere i famosi quindici minuti di fama grazie alla televisione.
Purtroppo il clown è un prodotto della società in cui vive e non cè redenzione
per chi non ha laspetto né la mentalità di chi è stato “eletto” nella schiera
dei normali. Allora lunico modo per poter veramente cambiare la situazione è
diventare una maschera, un simbolo, esattamente come sarà poi per il cavaliere
oscuro.
Una scena del film
© Biennale Cinema 2019
Sfoggiando una serie infinita di sfumature
vocali, facciali e posturali, il commovente Joker di Phoenix riesca a
condensare dietro la maschera da pagliaccio le peculiarità dei suoi predecessori
creando un nuovo modo di intendere uno degli antagonisti più famosi del cinema.
Forse più vicino alle gesta terroristiche del Joker di Heath Ledger (da ricordare limportanza del mezzo di comunicazione
come strumento per veicolare caos), il personaggio inventato da Todd Phillips
porta allennesima potenza la lezione nichilista della New Hollywood; è infatti
impossibile non notare influenze narrative ed estetiche (implicite ed
esplicite) dei film di Scorsese degli anni Settanta-Ottanta, in particolare di quelli
con protagonisti New York e De Niro (oltre a Re per una Notte cè anche Taxi
Driver, 1976).
Reimmaginando un passato noto (quello del
post-Vietnam, degli scontri razziali, della criminalità incontrollata) per
riflettere sui problemi del presente (quello dei leader carismatici, dei gretti
populismi e degli estremismi più ingiustificati), Joker prende una
direzione inedita rispetto ai cinecomics contemporanei anche grazie
allinterpretazione di Phoenix. Pur con qualche manierismo di troppo, il film
si spoglia delle tipicità del genere e gioca con lemotività dello spettatore,
tanto da portarlo a parteggiare per chi non dovrebbe: un insanguinato “specchio
ribaltato” che mette davanti ai nostri occhi gli istinti più bassi dellessere
umano, con la speranza che questo possa spingerci verso nuove consapevolezza e
un vero cambiamento.