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Un vigoroso affresco storico

di Sara Mamone
  J'accuse
Data di pubblicazione su web 21/09/2019  

Se l’aggettivo virile non fosse di questi tempi impraticabile diremmo che il film di Roman Polanski lo merita appieno. Non vorremmo però riscatenare aggiornate Menadi e ci limiteremo a considerarlo tra le opere egregie di questa edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia. J’accuse è un rigoroso film storico. Che prende di petto una delle vicende più note e più sconfortanti della storia tra fine Ottocento e inizi Novecento: il tristemente celebre caso Dreyfus.

Negli anni bui di una Francia umiliata dai disastri della guerra franco-prussiana e dalla perdita delle regioni dell’Alsazia e della Lorena, il giovane ufficiale dell’esercito francese, alsaziano di origine ebraica, Alfred Dreyfus divenne il capro espiatorio della rabbia dei vertici militari colpevoli della sconfitta. Con la connivenza di un governo parimenti bisognoso di giustificazioni. L’accusa di spionaggio a favore del nemico venne confortata da una ben orchestrata solidarietà istituzionale che contribuì a fomentare lo strisciante antisemitismo. L’ufficiale fu condannato.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2019

Polanski attacca in medias res, con la folgorante cerimonia della degradazione che vede l’uomo, immiserito dall’umiliazione, privato di tutti i simboli della dignità militare e poi inviato ai confini del mondo. Quello che interessa Polanski, e che istruisce a meraviglia, è il processo al processo. Il film si snoda con la forza del legal thriller, affidato alle indagini di Georges Picquart, capo dello spionaggio militare, che ripercorre con determinazione implacabile tutte le tappe della congiura. Con l’aiuto di un giornalismo libero e coraggioso. Quello che permise a Émile Zola di lanciare dalle pagine dell’«Aurore» il celebre “J’accuse” che, chiamando sul banco degli imputati l’intera classe politico-militare, contribuì ai successivi rivolgimenti politico-sociali. Sia Zola che Picquart pagarono di persona ma alla fine l’ufficiale venne riabilitato e Picquart venne addirittura chiamato al ruolo di ministro della guerra nel 1906 nel governo Clemenceau.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2019

L’estensione cronologica della vicenda è molto ampia ma il regista riesce a dipanarla con grande chiarezza e a concentrare nella sceneggiatura, di cui è autore assieme a Robert Harris, la lucidità dell’insieme e la precisione del dettaglio.  Senza perdere la presa dipana il suo personale atto di accusa (velato di un lieve tratto autobiografico?) e tiene inchiodato lo spettatore attraverso labirintici ma nitidissimi percorsi. E alla fine riesce, attraverso un protagonista assoluto (l’eccellente Jean Dujardin che mette in ombra il deuteragonista Louis Garrel) a costruire un film corale. Ma non perché presenti alla sbarra molti imputati o perché di tanto in tanto faccia comparire la massa dei cittadini quanto perché riesce a dare, attraverso il rigoroso accertamento della verità e delle responsabilità individuali, il senso della responsabilità collettiva. E a sottolineare con grande forza quali distorsioni possono nascondersi sotto la motivazione degli interessi nazionali.   



J'accuse
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J'accuse
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