Il 28 giugno 2019
la Biblioteca Umanistica dellUniversità di Firenze ha dedicato una serata a
Federico Fellini: un incontro per ripercorrere storie, memorie e ricostruzioni
legate a “8 ˝” (1963) e “Amarcord” (1973) e unoccasione per riascoltare le
musiche indimenticabili di Nino Rota. Durante la serata è stata letta una
vivace testimonianza di Mario Garriba, regista, attore, sceneggiatore, docente
del nostro Ateneo e assistente di Fellini allepoca di “Amarcord”. Riproponiamo
qui il suo scritto, ormai introvabile, pubblicato nel 2001 ne «I quaderni»
realizzati dalla Bottega del Cinema in collaborazione con la Cineteca di
Firenze (pp. 11-12).
«Mariolino per favore, mi sposti più in
là i chierichetti e gli orfanelli. Grazie» (funerale di Miranda madre di Titta)
la voce di Fellini mi raggiungeva
sempre attraverso un megafono. Mi guardavo attorno sorpreso ma lo trovavo quasi
subito, seduto dietro la sua cinepresa. Ci siamo parlati sempre a centro metri
di distanza o quasi. Come assistente alla regia mi colpiva soltanto che in
mezzo a tanta gente ricordasse il mio nome, tanto da renderlo affettuoso o
ironico. Come facesse non lo saprò mai. A me riconoscerlo era facile: sembrava
una fotografia. Spesso di una fotografia si dice “sembra vero”. Lì era il
contrario. Lo avevo visto così tante volte sulle illustrazioni delle riviste o
dei libri, conoscevo così bene i suoi film, anche quelli non realizzati, che mi
sembrava di averlo già visto. Col cappello, senza cappello, i capelli
spettinati, giacca e cravatta, cravatta un po allentata sul collo, megafono
sempre in mano; secondo me “girava” così anche a casa sua, oltre che sul set.
Allora senza sapere perché, spostavo più in là il parroco in tunica bianca e
quattro chierici davanti al carro funebre, poi il tutore con undici orfanelli
che dietro camminavano a due a due. Tutti mi chiedono ancora oggi comè stato
lavorare con Fellini. Non so rispondere. «An marcord gnint». Io dalla mia
posizione potevo soltanto sventolare, stando fuori campo, una bandierina gialla
per lazione e una rossa per lo stop, muovendo o fermando le comparse. Un
domatore di comparse. E quando mi domando la differenza che cè tra un aiuto
regista e un assistente, rispondo ancora: lassistente compra la Coca Cola e
laiuto la stappa. Tanto per intenderci subito sul concetto di arte. Sapevo di
essere dentro una realtà filmabile, ma non riuscivo a capire limmagine. Io il
“Borgo” intero (replica esatta di piazza della Repubblica di Rimini con i
portici) lho visto soltanto a film finito nel buio di una sala
cinematografica. Invece sul set tutto cambiava continuamente: case, palazzi,
strade ed altre strade. Poche volte siamo usciti da Cinecittà: sul molo e sul
mare di Ostia o nelle campagne e prati sotto i castelli romani. Una rapidità o
discontinuità che mi confondono ancora la memoria. Soltanto Fellini sapeva e
vedeva tutto.
Ogni
tanto, durante le pause, mi avvicinavo alla cinepresa e spiavo curioso i
discorsi tra Fellini, Rotunno, Donati e Maccari (operatore alla macchina), ma non parlavano mai di
fotografia o di scenografia, ma di luce, di spazio, di gesti e non di
recitazione. Mi allontanavo deluso. Restavamo anche giorni interi senza girare,
ma facendo soltanto delle prove. Fellini ricostruiva tutta la scena con gioia,
rabbie silenziose, dubbi. Voleva controllare ogni particolare prima di iniziare
le riprese, riproduceva la sua realtà e poi sceglieva. Guardava tutto dallalto
di un piccolo dolly e poi scendeva zitto e, imprevedibile, ordinava un carrello
laterale a seguire con un obiettivo normale.
Due
o tre volte soltanto ho parlato con Fellini senza megafono. La prima fu quando
gli fui presentato nei viali di Cinecittà mentre si terminava la preparazione
delle scenografie in esterno, ma qualcuno doveva avergli già detto qualcosa di
me. «So che sei svelto. Speriamo… perché io sono molto lento». Unaltra volta
quando il film fu sospeso per riprendere qualche mese dopo: «Mi dispiace per
questa pausa. Tu sei stato svelto. Ma io ho bisogno di fermarmi per poter
sognare. Mariolino capisci vero?». Allora no. Oggi sì.
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