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Il Faust freudiano di Federico Tiezzi

di Antonia Liberto
  Faust
Data di pubblicazione su web 17/06/2019  

Un tempo la “cultura”, pur essendo accuratamente distinta dalla “natura”, veniva concepita alla stessa stregua, ossia come fenomeno inscritto nella realtà delle cose. Ancora per Claude Lévi-Strauss (Le strutture elementari della parentela, I ed. 1948, Milano, Feltrinelli, 2003), tale distinzione era prova dell’esistenza naturale della cultura. Col tempo prevalse sempre più l’idea che le linee di confine tra i due domini, anziché essere date e quindi osservabili direttamente nella realtà, fossero incise culturalmente, di volta in volta tracciate a seconda delle prospettive prescelte.

Sulla presa di coscienza dello scardinamento di questa dicotomia fondamentale si basa la personale riflessione di Federico Tiezzi sul Faust di Goethe. In Scene da Faust il regista, estrapolando alcuni momenti fondamentali della prima parte del dramma, isola dodici scene di cui analizza il testo attraverso un filtro tutto novecentesco, quello della psicoanalisi di matrice freudiana, creando un cortocircuito che inesorabilmente avvicina il mito faustiano alla contemporaneità. Oggi, a distanza di poco più di cinquant’anni dal testo di Lévi-Strauss, il panorama è radicalmente cambiato. La società organizzata è sull’orlo della disumanizzazione e la cultura, intesa come insieme di regole che normalizzano la vita e l’agire collettivo, appare settorializzata.


Una scena dello spettacolo 
© Margherita Nuti

La crisi di questa dicotomia è decifrabile nel Faust di Tiezzi mediante una assenza. Mentre il termine “natura” compare in scena calato dall’alto tramite un sistema di corde, il termine “cultura” non compare. Dunque nulla sembra più “puramente” naturale: anche i bisogni fisiologici sono, in qualche misura, “plasmati” dalla cultura. Coerentemente, una scena asettica e artificiale accoglie gli spettatori, con toni di un bianco brillante su cui la luce rimbalza e si diffonde.  

Goethe lavorò al Faust per sei decenni costruendo un’opera monumentale. Dodicimilacentoundici versi che impegnarono l’autore dal 1772 al 1831 e che videro la luce in una prima redazione incompiuta, l’Urfaust (1775); poi in un Faust prima parte (pubblicato nel 1808); infine nel Faust seconda parte (1831), pubblicato pochi mesi prima della morte. È con Goethe che questo personaggio è divenuto parte dell’immaginario collettivo occidentale, anche se molti altri letterati se ne sono occupati dopo di lui: da Turgenev a Heine, da Mann a Valéry fino a Pessoa, il mito faustiano ha creato un’ampia letteratura. L’opera è stata oggetto di versioni musicali (di Prokof’ev, Berlioz, Beethoven, Mahler, Schubert, Schumann, Wagner) e operistiche (si pensi al dramma lirico di Gounod), ma soprattutto ha ispirato una lunga serie di regie teatrali e cinematografiche di cui Tiezzi, direttore colto e sapiente, ha tenuto conto, e delle quali si legge traccia in alcune scelte registiche.

Mentre le più recenti versioni di Peter Stein e Bob Wilson hanno tentato l’ardua impresa di mettere in scena l’intero testo (Stein nel 2000 proponendo venti ore di spettacolo in occasione dell’Hannover Expo e Wilson nel 2015 al Berliner Ensemble), è soprattutto all’impresa strehleriana che Tiezzi si è rifatto. Strehler per il suo Progetto Faust, infatti, impiegò ben sei anni di lavoro, durante i quali allestì il testo diviso in due parti. Iniziato nella stagione 1988-1989 e terminato in quella 1990-1991, il lavoro è sicuramente rimasto nel ricordo di Tiezzi giovane spettatore, già affermato regista d’avanguardia (si ricordino le sue esperienze con la compagnia fiorentina de Il Carrozzone a partire dagli anni ’70).


Una scena dello spettacolo 
© Margherita Nuti

La lettura di Tiezzi risulta attenta al dettaglio, composta. Anche il pensiero più violento è sublimato in una struttura rigida, in cui persino un duello è normalizzato: anziché essere una lotta all’ultimo sangue, diventa un incontro di scherma. C’è tutto il linguaggio tipico del regista, che rimanda spesso alle arti figurative, a volte in maniera più scoperta. Si pensi alla composizione plastica che, intervallando le scene, mostra Faust faccia a faccia con un lupo: un evidente richiamo a I like America and America Likes Me di Joseph Beuys, la performance in cui l’artista rimase chiuso in una galleria d’arte per diverse settimane con un coyote vivo, rappresentazione del capitalismo americano. Oppure si pensi all’Origine del mondo, il noto e scandaloso dipinto di Courbet, mostrato in proiezione come simbolico motore delle azioni di Faust. Altre volte, invece, le citazioni sono meno evidenti. Si susseguono composizioni che richiamano alla memoria l’antica iconografia della Pietà fino alla più recente rappresentazione dell’uomo medio: una piccola folla di persone abbigliate in bianco e nero con in testa una bombetta di magrittiana memoria, che parlano affastellando luoghi comuni o creano l’effetto della confusione e della chiacchiera esagerata tramite l’utilizzo di fischietti. La scena intitolata La cucina della strega divide nettamente in due lo spettacolo, mettendo in atto il ringiovanimento di Faust ad opera di un esercito di scimmie intente in un sabba chirurgico. Qui, su un lettino d’ospedale, Faust cambia volto indossando una maschera che ne neutralizza le caratteristiche personali, proprio come se fosse appena uscito dalla sala operatoria di un chirurgo estetico. La seconda parte passa dal dramma di Faust a quello di Margherita/Gretchel, la storia borghese di una fanciulla rovinata, ispirata a un fatto vero di infanticidio. Qui l’attrice e cantante Leda Kreider dà dimostrazione della sua bravura, in una finale scena di follia in cui, più che rinchiusa in un carcere, come vorrebbe la storia, sembra in un istituto psichiatrico.

La lettura psicanalitica operata da Tiezzi permetterebbe di cogliere fino in fondo il dualismo Faust-Mefistofele, ossia la visione di Mefistofele in quanto parte negativa e rimossa di Faust, se il tema non fosse solo accennato. Tiezzi, invece, decide di mettere in risalto il lato morboso e l’elemento sessuale della vicenda a scapito anche dell’annosa questione faustiana della sete di conoscenza, descrivendo Mefistofele come proiezione dell’inconscio e seguendo l’insegnamento freudiano secondo cui l’amore per il bello in ultima analisi consisterebbe in una sublimazione della sessualità. Non doppio ma parte stessa di Faust, che diviene simbolo della crisi della coscienza e dell’anima dell’uomo contemporaneo.

Rimane l’impressione di un mondo tutto terreno, senza Dio ma solo, appunto, mefistofelico, in cui le pulsioni del protagonista sono dirette alla vera conoscenza che non sia dettata dall’esperienza (i libri che legge sono alti tomi composti da una serie di candide pagine vuote). Un’impressione che riporta subito al concetto di antropocene, divulgato da Paul Crutzen e che si è fatto strada negli ultimi anni, secondo cui l’ambiente è fortemente condizionato dagli effetti dell’azione umana.


Una scena dello spettacolo 
© Margherita Nuti

Lo spettacolo appare come un movimento di un’incompiuta: lungi dall’essere una riflessione sull’intera opera, è uno studio preliminare su una parte, già di per sé carica di significato, dell’opera di Goethe. Una prima assoluta, prodotta dal Teatro Metastasio, che richiede un’ulteriore riflessione sulla parte mancante. La traduzione, nella versione del giovane drammaturgo Fabrizio Sinisi, modernizza il testo per renderlo più funzionale e adatto alla recitazione (pur mantenendo la forma in versi), accentuandone l’aspetto dialogico. Accanto a Marco Foschi nel ruolo di Faust, a Sandro Lombardi nel ruolo di Mefistofele, e alla citata  Kreider in quello di Margherita-Gretchen, gli attori dell’ultimo biennio del Teatro Laboratorio della Toscana fanno da personaggio collettivo o fungono da comparse, elemento essenziale di movimento nell’universo creato da Lombardi-Tiezzi (che, altrimenti, avrebbe tutta l’aria di essere una mera sala d’attesa). L’atmosfera purgatoriale sublima, grazie alla sua forma neutra, l’attuale modello consumistico che propende, come Faust, alla continua ricerca del piacere immediato.

In questo spettacolo l’uomo è dunque il centro e l’artefice, ma rimane comunque «un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto» (C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 40).



Scene da Faust
cast cast & credits
 

Si consulti qui il 
del teatro Metastasio 
di Prato



Il regista Federico Tiezzi
© Luca Manfrini
 
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