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Ibsen Old Wild West

di Chiara Schepis
  Un nemico del popolo
Data di pubblicazione su web 03/05/2019  

Ibsen pop o Ronconi pop sarebbero stati titoli-ossimori altrettanto azzeccati per presentare Un nemico del popolo firmato da Massimo Popolizio per la produzione del Teatro Nazionale di Roma: operazione interessantissima, “giovane”, che svecchia Ibsen e ce lo mostra, appunto, attraverso una chiave di lettura popolare, in un contesto delocalizzato (forse) nel tempo e nello spazio.

È in primis il contrasto a stuzzicare la curiosità dello spettatore: immaginate Le tre sorelle di Čechov sedute in un bar dell’Havana o Il giardino dei ciliegi coltivato nell’Agropontino. Così Popolizio sposta Ibsen e le terme della cittadina norvegese in cui si svolge il dramma etico-politico in una non precisata località del centro America, probabilmente in Texas. Nulla di poco credibile, ma di spiazzante sicuramente.

La grande domanda che l’autore norvegese pone in questo testo è etica e intramontabile: tra il profitto e l’ambiente, tra una sicura rovina economica e la salute del prossimo, per cosa opta il potere? Quanto senso può avere la battaglia degli “onesti pochi”? Il dottor Thomas Stockmann-Popolizio, medico di uno stabilimento termale, analizza le acque e le scopre inquinate e quindi nocive per la salute dei villeggianti che affollano il luogo arricchendo la cittadina. Vorrebbe denunciare la scoperta a gran voce («La voce del popolo» è il titolo del quotidiano locale) ma il sindaco Peter Stockmann (Maria Paiato en travesti), di lui fratello, gli dichiara una guerra senza mezzi termini anteponendo il profitto alla verità. Tra questi due estremi oscillano e si schierano parenti, amici, figure influenti del tessuto urbano: il popolo.



Un momento dello spettacolo
© Giuseppe di Stefano

Non sono i personaggi né i costumi né l’impianto scenografico, fedeli ai tempi (il testo è scritto nel 1882), a denunciare l’ambientazione, bensì il pervasivo côté atmosferico creato da luci, suoni, videoproiezioni e certamente dal cantastorie di colore, ubriaco-inserviente in tuta da lavoro (Martin Ilunga Chisimba) arbitrariamente inserito dalla regia con funzione di prologo di questa tragicommedia dei nostri giorni.

Le scene di Marco Rossi “si gettano” quasi sulla platea, coprendo i palchetti del proscenio con pannelli-pareti di colore grigio ferroso che, via via componendosi, formano gli spazi della narrazione: interno del laboratorio del Dottor Stockmann, tipografia del giornale La voce del popolo, tribuna del dibattito pubblico. Giustapponendosi, cadendo, scomparendo in graticcia, i pannelli creano profondità e segmentano il palcoscenico in modo da agevolare la creazione di un gioco di scene e controscene in cui gli attori-personaggi si osservano di nascosto, si spiano, origliano. Le condutture delle terme, tubi e rubinetti a vista, sono monito costante dello scandalo che quelle pareti cercheranno di contenere.

In alto, a riempiere totalmente la visuale scenica, le videoproiezioni (di Bruno e Renzetti) propongono diapositive “emaciate” di un sud selvaggio e di periferie legnose e assolate, creando insieme alla musica country (curata da Maurizio Capitini) un soffocante contrasto con i costumi pesanti e invernali di Gianluca Sbicca. I personaggi vestono abiti scuri e lunghi (fatta eccezione per il camice bianco, aperto e svolazzante, del dottore), soprabiti pesanti che allungano le figure e le irrigidiscono nel proprio ruolo. 

Tutt’altro che rigida invece la regia di Popolizio, seppure studiatissima. Ogni gesto, ogni battuta sono calibrati e misurati secondo la lezione ronconiana (di cui si vede traccia anche nella scenografia): i movimenti degli attori, i loro percorsi sembrano seguire delle linee ben precise; i gesti ampi, eloquenti, destrutturati sono spesso avviati da un attore e conclusi da un altro in un gioco scenico che stupisce per l’effetto di immediatezza. 



Un momento dello spettacolo
© Giuseppe di Stefano

Lo stesso Popolizio e Maria Paiato, nei panni dei due fratelli rivali, danno vita a due personaggi vibranti, in contrasto tra loro non solo per le opinioni che difendono ma anche sul piano fisico. Il primo molto più alto e corpulento, la compagna di scena di statura minuta. Anche sfruttando la musica, il regista-attore propone un Dottore soft, morbido nell’eloquio e nei movimenti, pronto però ad accendersi e a irrigidirsi sopraffatto dall’indignazione nelle scene finali. La Paiato, quasi androgina, riesce perfettamente a mostrare le sfaccettature di un abilissimo uomo di potere che si destreggia tra la menzogna e la politica, senza risultare neppure troppo ipocrita.

Del resto le tematiche di questo dramma non sono estranee al nostro presente: parlare di corruzione e di disinteresse ambientale in un paese che non sa come smaltire i propri rifiuti, periodicamente attraversato da scandali passeggeri come l’olio di palma o le frequenze del 5g, permette di creare nel pubblico del Teatro Nazionale di Roma un interessante cortocircuito di tipo brechtiano. In particolare, nel quarto atto prende forma un dibattito politico dal quale il dottor Stockmann uscirà sconfitto. Popolizio, disseminando attori sui palchetti e in platea e attraverso audio-registrazioni, “schiera” arbitrariamente lo spettatore, che si ritrova così, in silenzio, tra chi accusa e addita il dottor Stockmann come “nemico del popolo”. 


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Spettacolo visto il 18 aprile 2019 al Teatro Argentina di Roma. 




Un nemico del popolo
cast cast & credits
 





Un momento dello spettacolo visto il 18 aprile 2019 al Teatro Argentina di Roma
© Giuseppe di Stefano
 
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