Si dice che il tempo operi
selezioni ragionevoli e, probabilmente, è vero. Meno condivisibile il
corollario che se ne ricava: se una determinata opera dopo effimera popolarità
precipita nel dimenticatoio un motivo ci sarà, né vale la pena riesumarla a
distanza di secoli. Quelle fatidiche selezioni, infatti, nella loro
ragionevolezza non sempre obbediscono a criteri qualitativi: sono spesso il
frutto di sensibilità che cambiano, esigenze produttive che guardano ad altri
mercati, estetiche che non riescono a sintonizzarsi con un “nuovo che avanza”
destinato, peraltro, a invecchiare a sua volta. E questo tanto più vale quando
quellopera, come Agnese di Ferdinando Paer, è il frutto di una civiltà musicale di transizione, con un
piede negli ultimi avanzi del Settecento e laltro negli albori del
diciannovesimo secolo: unopera, insomma, per certi aspetti nata già vecchia e
per altri “avanguardista”. Qualcuno oggi la definirebbe postmoderna, ma questo
il parmense francesizzato-viennesizzato Paer, fedele alla musa dellequilibrio
costruttivo e della melodia ben tornita, ai suoi tempi non poteva sospettarlo.
Se a ciò aggiungiamo la genesi particolarissima di Agnese nata nel 1809 per unesecuzione amatoriale, ma propagatasi al punto dindurre lautore dieci anni dopo a una revisione della partitura, nonché ulteriormente rimaneggiata nel 1824, quando ad accostarsi alla lacrimevole e volitiva eroina musicata da Paer fu la diva Giuditta Pasta si capirà come quei quindici anni che dividono la prima dallultima stesura non siano tre lustri, ma unera geologica: concepita in unetà ancora (sia pure per pochissimo) prerossiniana, lopera svilupperà la sua breve ma intensa fortuna proprio durante lapogeo di Rossini, ormai stella polare anche per i musicisti della generazione precedente, come appunto Paer. Lago della bilancia si sposta da un classicismo viennese ben presente nella scrittura orchestrale (gli equilibri coloristici della Sinfonia sono eloquente biglietto da visita al riguardo) a quei palpiti protoromantici che le due revisioni, comunque destinate al pubblico parigino e non italiano, insufflano grazie a una scrittura vocale via via più ornata e belcantistica; mentre sotto il profilo drammaturgico lequilibrata coesione del genere larmoyant, cui Agnese almeno concettualmente appartiene, cede il passo a una più variegata eterogeneità insita in ogni “dramma semiserio”: che è appunto la dicitura apposta da Luigi Buonavoglia, oscuro ma talentoso verseggiatore-sceneggiatore, al suo ottimo libretto.
Un momento dello spettacolo © Edoardo Piva
Stando così le cose, Diego Fasolis appassionato
riesumatore dellAgnese e direttore
di questa sua prima rappresentazione in epoca moderna al Teatro Regio di Torino
ha fatto una scelta forse discutibile in termini di rigore musicologico, ma
che alla resa dei conti si rivela la più giusta: offrire allo spettatore di
oggi tutto il materiale possibile di questa partitura “multipla”, usando come
basamento la versione del 1809 e innestandovi, allinterno, i successivi brani
sostitutivi (che invece, proprio perché concepiti in sostituzione, avrebbero
dovuto sopprimere determinati momenti della stesura iniziale). Ne scaturiscono
quasi tre ore di musica per una vicenda che, in realtà, è allinsegna della medietas domestico-borghese, un
allargamento forse spropositato del tenore (che acquista un peso eccessivo in
rapporto alla melensa frivolezza del personaggio, disinnescando il messaggio
“femminista” dellopera) e una vocalità ondivaga per la protagonista, quasi
ibridata con il mezzosoprano in origine ma più acuta nelle pagine ripensate per
Parigi.
Ascoltare tutta la musica di Paer rappresenta, però, una felice ricognizione pluristilistica: anzi, poiché i rifacimenti riguardano solo il secondo atto, limpressione è quasi di sentire due opere distinte. Nella prima parte limpide simmetrie strumentali, una protagonista a intensa concentrazione drammatica, un tenore di grazia centralizzante e di “mezzo carattere” ancora molto paisielliano o protorossiniano e voci gravi allinsegna di un espressivo canto spianato, nei picchi tragici (pertinenti al baritono, folle padre della protagonista) come in quelli comici (di competenza del basso buffo, pavido direttore del manicomio). Nella seconda parte, invece, troviamo unorchestra più sussidiaria rispetto alle ragioni della vocalità, con il corollario duna protagonista meno severa e veleggiante invece sui lidi dun belcanto incontaminato, nonché dun tenore decisamente rossiniano nei preziosismi esornativi e negli alpinismi verso le vette sopracute del pentagramma. Fasolis assembla tutto questo stratificato materiale drammaturgico-canoro con la plasticità unitaria del sapiente concertatore, oltre che con ottimo appiombo tra orchestra e palcoscenico; e sebbene resti limpressione che la vera anima di Agnese sia quella tardoilluministica piuttosto che la preromantica, i due mondi convivono senza strappi: solo limpiego del recitativo “secco” Paer riserva quello “accompagnato” a poche situazioni strategiche dà a tratti limpressione di unarcaicità museale rispetto al passo drammatico dellopera.
Un momento dello spettacolo © Edoardo Piva
La regia di Leo Muscato, a
sua volta, mostra di credere nellalternanza comico-drammatica del genere
semiserio, corroborando così il direttore in questa riappropriazione di tutti i
materiali dellAgnese. Vicenda di
stringente attualità ai tempi della composizione (i primi manicomi “moderni”,
intesi come casa di cura e non mero internamento, risalgono agli inizi
dellOttocento), i suoi personaggi e le sue situazioni assumono oggi un sapore
stilizzato: ed è proprio grazie al registro antinaturalistico che Muscato fa convivere
al meglio commedia e dramma. La scenografia di Federica Parolini crea
una sorta di farmacia vivente; i personaggi
vivono o agiscono allinterno di armadietti di medicinali, dove i
protagonisti possono esternare la loro dimensione archetipica, prima che realistica:
la fanciulla ribelle (al padre) ma capace di perdonare (al marito fedifrago);
il vecchio genitore delirante più per bisogno damore che per reale follia; il
bellimbusto attivo nella vita mondana e passivo davanti agli eventi; il medico
progressista (per il quale la pazzia non è fenomeno irreversibile) e
loscurantista direttore del manicomio (per il quale “i matti son matti”).
Tutti tasselli dun gran teatro del mondo, qui restituito in abiti belle époque dai bei costumi di Silvia
Aymonino, dove certe specularità e taluni
rapporti incrociati tra i vari personaggi che Paer e Buonavoglia abbozzano
soltanto emergono con insospettata chiarezza. A dar voce a tali tasselli troviamo il giovane soprano Maria Rey-Joly, voce ancora con qualche acerbità timbrica, ma interprete già straordinariamente matura; un tenore baciato dalla natura e rinforzato dalla tecnica (“legato” e “messa di voce” sono quelli del fuoriclasse) come Edgardo Rocha; un secondo tenore, ma di pasta tuttaltro che comprimariale, qual è Andrea Giovannini, che nei panni del “protomedico” Don Girolamo rende giustizia allars medica come allarte della commedia; i perfetti tempi comici, uniti a uno scioltissimo canto sillabico e a un falsetto da manuale, di Filippo Morace nella parte dellintendente del manicomio. Ai margini del quadro, Giulia Della Peruta e Lucia Cirillo tratteggiano due efficaci figurine muliebri (la prima insignita duna simpatica “aria da sorbetto”) allinsegna della solidarietà femminile. Sicché alla fine lunico a non convincere appieno è Markus Werba, voce di baritono lirico piegata con qualche artificiosità a sonorità scure e voluminose: ma almeno sul piano scenico questo padre che impazzisce per non morire resta un grosso personaggio.
Un momento dello spettacolo © Edoardo Piva Il pubblico torinese ha accolto con calore lo spettacolo. Una Paer-renaissance resta difficile da ipotizzare (però anche una Camilla a Parma, alcuni anni or sono, fu un bel successo) ma, meteora o meno, questa ripresa torna utile al dibattito teatrale e a una ricognizione ermeneutica. Lartigianale Paer fu un precursore del geniale Rossini, come la prima stesura di Agnese sembra suggerire? O è stato magari obtorto collo un suo più anziano epigono, come parrebbe nelle successive revisioni? Difficile dirlo: e forse anche fallace, come prospettiva dindagine. Borges, con amabile paradosso, preferiva sostenere che un genio crea sempre i suoi predecessori
Spettacolo visto il 17 marzo 2019 al Teatro Regio di Torino.
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