Tanti applausi per la prima della nuova stagione
alla Scala. Per tutti, anche per la regia. A dirla tutta, dei buu per la regia ci sono stati, ma così
sparuti e poco convinti che gli applausi li hanno facilmente messi in secondo
piano. Gli applausi invece sono stati inaspettatamente lunghi, ma non
entusiastici: anche questi, come i buu,
erano in fondo poco convinti. Che cosa è successo, dunque, lo scorso 7 dicembre
allinaugurazione della Scala?
Non molto. Questo era il timore generalizzato
nelle discussioni sul web nei mesi che hanno preceduto la prima. Si è
cominciato a mugugnare sulla mancanza di un vero e proprio “evento” non appena
si è saputo il titolo dapertura, quindi più o meno dallautunno scorso. Una
vera riscoperta, in effetti, Attila
non è, non è più almeno. Alla Scala lultima edizione era del 2011; negli
ultimi sei anni si contano le produzioni dellOpera di Roma (2012), della
Fenice di Venezia e del Comunale di Bologna (2016); quella del Festival Verdi
di Parma è dello scorso settembre. La novità di questAttila avrebbe dovuto essere, secondo il battage del teatro, nella versione dellopera che si è scelto di
rappresentare: non la prima assoluta, quella della Fenice del 17 marzo 1846,
bensì quella della Scala del 26 dicembre successivo.
Il cast del primo Attila milanese era diverso rispetto a quello veneziano, tuttavia Verdi
non intervenne sulla composizione per adattarla alla nuova compagnia; si limitò
a scrivere una nuova romanza per Foresto, che a Milano era affidato a Napoleone
Moriani («Oh dolore! Ed io vivea»), in luogo di quella scritta per Carlo
Guasco a Venezia («Che non avrebbe il misero»). A questa nuova romanza si
aggiungono poi alcune (meravigliose) battute di introduzione strumentale che
Rossini compose per unesecuzione nel suo salotto parigino del terzetto del terzo
atto («Che più sindugia»), e che per questa occasione sono state orchestrate
(Rossini le aveva scritte per pianoforte). Per quanto splendide e mai inserite
nelle rappresentazioni dellopera, ununica nuova romanza per il tenore
allinizio del terzo atto e cinque battute introduttive sono troppo poco per
montare un “caso” intorno al recupero di una versione rara se non inedita della
partitura, come a ragione la Scala aveva fatto, e con successo, per La fanciulla del West e Madama Butterfly di Puccini, entrambe
del 2016. Attila, inoltre, è stato percepito dai più come ripiego, visto che
per il SantAmbrogio 2018 era da tempo nellaria una nuova produzione dei Vespri siciliani che, per diverse
ragioni, smuoveva tuttaltre curiosità e appetiti rispetto allopera messa poi
in apertura di cartellone.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano
La “sensazione” che il titolo di per sé non
prometteva di offrire, il teatro ha cercato di costruirla altrove. La Scala ha
infatti affidato lo spettacolo a Davide
Livermore, regista tra i più acclamati e discussi delle ultime generazioni.
La sua ultima regia per il teatro milanese è stata il Tamerlano del 2017,
una delle migliori e più sorprendenti produzioni liriche degli ultimi anni, e
non solo in Italia. Si sarebbe sperato che questo Attila rinnovasse il successo dello spettacolo precedente. Così,
però, non è stato.
Come nel Tamerlano, Livermore opta per uno
spostamento cronologico della vicenda narrata: dal Medioevo al Novecento, che
qui è non è quello della Rivoluzione dottobre, bensì quello delle fasi
conclusive della Seconda guerra mondiale. Attila
per Livermore è un feroce capo militare alla testa di truppe di occupazione –
nazifasciste, si potrebbe aggiungere –; anche se qui non ci sono né svastiche
né fasci, è chiaramente quello il riferimento. Il sipario si apre su una
«piazza di Aquileja» che richiama una città distrutta dai bombardamenti così
come se ne vedono nei film del Neorealismo: la scena mostra un enorme praticabile
a metà tra larco di trionfo e il ponte ferroviario di una possibile Roma del
1944; sullo sfondo si proiettano immagini in bianco e nero di quella che sembra
la Berlino post-raid aerei di Berlino
anno zero (scene di Giò Forma;
video di D-Wok). In questo spazio,
in cui sul finire del preludio i personaggi sono bloccati come in un tableau vivant, lazione si fa subito
concitata. Davanti ai nostri occhi si consumano vari atti di ferocia ai danni
dei vinti (umiliazioni, esecuzioni sommarie e via dicendo), dislocati in più
punti della scena come in un totale cinematografico. La sortita di Odabella
riporta lattenzione sul proscenio ed è una vera e propria citazione da Roma città aperta: leroina si fa contro
al nemico stringendo avvolta in una mano una bandiera, come la Pina di Anna
Magnani che allo stesso modo stringe lo scialle nella scena madre del film
di Rossellini (costumi di Gianluca
Falaschi).
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano
Dopo questo inizio di grande effetto, però, lo
spettacolo perde di mordente: le scene si fanno statiche, i movimenti e la
recitazione generici. Anche quando ci sono altre citazioni cinematografiche
esplicite (Portiere di Notte di Liliana Cavani e La caduta degli dei di Visconti
nella scena del banchetto del secondo atto sono le più immediate), queste
restano sullo sfondo, e la recitazione e i movimenti dei cantanti non ricevono
la stessa cura iniziale.
Ci sono tuttavia
momenti felici. Per esempio, la visione di Attila nel primo atto, che Livermore
realizza come una versione animata dellaffresco di Raffaello nelle Stanze vaticane (che Verdi stesso aveva preso a
modello per questa scena), oppure il finale dellopera che ripropone scelte
cinematografiche analoghe a quelle dellinizio. Ho limpressione che si tratti di uno spettacolo
realizzato “solo in parte”, come se Livermore non avesse avuto la possibilità
(o la costanza) di condurre fino in fondo le sue scelte registiche (come invece
era avvenuto nel Tamerlano) e
abbia optato (o sia stato convinto a farlo) per soluzioni meno radicali. Quel
tanto che basta per scontentare qualche loggionista, senza però fare
appassionare davvero nessuno.
Dal punto di vista musicale si è verificato
qualcosa di simile. La direzione di Riccardo
Chailly è stata al massimo corretta. Dopo le prime battute del preludio, in
cui il direttore ottiene dallorchestra interessanti sonorità misteriose e
vellutate insieme, non ci sono più sorprese degne di nota. E dire che la
scrittura del primo Verdi, di cui Chailly peraltro è un esperto, abbonda di soluzioni
melodiche e timbriche singolarissime (penso al trattamento che egli riservò allorchestra
nella romanza di Odabella del primo atto «Oh!
nel fuggente nuvolo», solo per fare un esempio), che però il direttore lascia
scivolare via senza particolare cura. Certo,
tutto fila liscio tra palco e buca, e alla fine il pubblico reagisce in modo
positivo, ma niente di
più.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano
Le cose vanno meglio con la compagnia di canto. Ildar Abdrazakov (Attila) è un veterano
del ruolo che ha cantato un po ovunque nella sua ormai quasi ventennale
carriera. Di Attila Abdrazakov ha la voce e il fisico, entrambi imponenti. Ha
anche ottima eleganza musicale e grandi capacità di attore, che gli permettono
di tratteggiare un personaggio che è al contempo minaccioso e molto seducente. Fabio Sartori è anchegli un veterano della
parte (è stato Foresto alla
Scala già nel 2011). Non ha le doti fisiche e attoriali di Abdrazakov, ma canta e recita benissimo con la voce. E
poi laria sostitutiva per Moriani gli sta (e la esegue) a pennello! Nobile e
sicuro è lEzio di George Petean,
che ci ricorda che baritoni in grado di cantare Verdi con gusto senza eccedere
nei decibel esistono ancora, per fortuna.
Con due veterani in due dei ruoli principali,
lattenzione della serata era puntata in particolare su Saioa Hernández, alle prese con lunica vera sfida vocale
dellopera: la parte di Odabella. Il soprano si è costruita una solidissima
reputazione negli ultimi anni, cantando con molto successo opere impegnative (Francesca da Rimini, Wally, Gioconda). Arriva
ora alla Scala per uno dei ruoli più impervi del repertorio ottocentesco.
Hernández ne supera con stile le difficoltà: esce indenne dalla temibile
sortita «Santo di patria indefinito amor!» (solo le colorature potrebbero
essere più a fuoco) e dalla non meno temibile romanza «Oh! nel fuggente
nuvolo», così vicine nellopera e così diverse nella vocalità; dà poi il meglio
di sé nei concertati, in cui la voce svetta luminosa su coro, solisti e
orchestra. Hernández è uninterprete convinta, sia dal punto di vista musicale,
sia da quello attoriale e ottiene per questo un meritatissimo successo, che
però non è un trionfo (forse Odabella non era il ruolo più adatto a questo
scopo). Di gran lusso i comprimari Francesco
Pittari (Uldino), Gianluca Buratto
(Leone), ottimi interpreti che la Scala sa sempre garantire anche nelle parti
secondarie.
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