Quando
ci si accosta a un lavoro considerato – a torto o a ragione – “minore”
allinterno del corpus di un
musicista sommo, gli approcci, fondamentalmente, sono due: o si restituisce la
partitura con un fervore che annulla zone grigie e momenti convenzionali (è quel
che fa Riccardo Muti nei suoi
reiterati approcci con il Verdi
degli “anni di galera”) oppure, senza pretendere nobilitazioni oltremisura, si
sottolinea la forza innovativa che per intermittenze trapela da quella
drammaturgia musicale, imprimendo ai suoi occasionali frammenti di grandezza una
dignità diversa, eppure non inferiore, rispetto ai capolavori tout court (ed è quanto faceva Gianandrea Gavazzeni in certe riesumazioni donizettiane). Nel caso di un Rossini discontinuo nella tenuta
drammatica, e assai poco frequentato dalla pratica teatrale, come Ricciardo e Zoraide la bussola dovrebbe
essere una concertazione capace di far dialogare – è questa la fertile
incoerenza dellopera – convenzionalità dellimpianto e struttura musicale
tuttaltro che ovvia: magari col soprammercato dun regista che stemperi
nellironia le macchinosità del libretto. Fu ciò che accadde a Pesaro quasi
trentanni or sono, quando a riproporre questo titolo furono Riccardo Chailly e Luca Ronconi. Oggi invece, sempre nel festival della patria di
Rossini, tutto quadra un po meno: se cast
e regia restano da grandi occasioni, è proprio dal podio che giungono risposte
poco significative.
Un momento dello spettacolo © Amati Bacciardi
Giacomo Sagripanti ha a disposizione unorchestra blasonata (la
Sinfonica Nazionale della Rai) e una coppia di protagonisti appartenenti al più
collaudato star-system (Juan Diego Flórez e Pretty Yende). Però quella stessa
orchestra non ha ancora assunto, per “vissuto” professionale e repertorio delezione,
una specifica idiomaticità operistica (probabilmente la conquisterà col tempo,
essendo dallanno scorso lensemble in
residence del festival pesarese): avrebbe bisogno, dunque, di una bacchetta
capace dimprimere una sonorità più “teatrale” e un fraseggio più – appunto –
operistico a quella lucentezza nitida, a tratti quasi metallica, che è la principale
caratteristica fonica di questo eccellente complesso sinfonico. Sagripanti
invece sembra assecondare, piuttosto che plasmare, i suoi strumentisti: un direttore
più stringente avrebbe forse arginato quelle sbavature dellassolo del corno
che, la sera della “prima”, hanno un po pregiudicato la sinfonia. E la
presenza dei due divi recava limpressione di un concertatore defilato,
piuttosto che in sinergia con il palcoscenico: se la lunga militanza rossiniana
di Flórez ha comunque assicurato il giusto appiombo stilistico, certe
ornamentazioni della Yende mostravano un retrogusto liberty da Rossini “pre Renaissance”.
Non disdicevole in sé, ma poco congruo per Pesaro.
Un momento dello spettacolo © Amati Bacciardi
Al
di là dei momenti più o meno riusciti, ciò di cui resta poca traccia, in questa
lettura musicale, sono proprio le qualità strutturali dellopera: linterazione
dellorchestra con gli strumenti in scena e fuori scena quale dialettica narrativa,
anziché puro esperimento coloristico; la perifericità dei momenti solistici,
occasionali tableaux vivant dentro
unazione interamente costruita attorno ai brani dinsieme; la forma a canone e
il canto a cappella da intendere non come “momenti sospesi”, ma veicoli di
drammaturgia vocale. Tutte cose, al contrario, ben comprese dalla regia di Marshall Pinkoski, autore duna
messinscena musicalissima che restituisce sul piano visivo la doppia anima di
questo melodramma conservatore e innovativo a un tempo, spogliato dalle
arditezze armoniche del Rossini “napoletano” di quegli anni e, tuttavia, capace
di convertire in esercizio di stile un pastiche
esotico vetusto. Dispiace che molti abbiano scambiato per calligrafismo
leleganza della sua impaginazione: lottica di un Ottocento ideale e “mentale”,
figlio delle grandi esplorazioni geografiche, per ricostruire l“altrove” della
Nubia e lepoca delle crociate; lo scontro tra religioni e culture – assai
pretestuoso in Rossini – lasciato sullo sfondo per porre in primo piano lafflato
lirico e la natura intima della vicenda; le modalità del teatro-danza (coreografie
di Jeannette Lajeunesse Zingg) come
esternazione di certi rapporti geometrici tra i protagonisti e, al contempo,
creazione di un personaggio collettivo (i danzatori) che duplica il ruolo
drammatico del coro.
La
Yende e Flórez non sembrano allapice della forma: lei per una contingente
situazione fisica imperfetta, lui perché – piaccia o no – gli anni cominciano a
trascorrere anche per questo eterno ragazzo. Dunque, per quanto riguarda il
tenore, dimensione lirica privilegiata rispetto a quella virtuosistica,
fraseggio insinuante, stile sorvegliato pure in qualche occasionale guasconata,
registro sopracuto sempre ampio ma, rispetto a un tempo, meno penetrante e di
più limitata gamma dinamica. Della Yende, a parte la minore proprietà sul piano
stilistico, può lasciar perplessa una voce tanto discogenica quanto delicata,
destinata a far faville in sala dincisione e, tuttavia, sacrificata negli spazi
pletorici dellAdriatic Arena: anche la nota distintiva e linequivocabile
pregio del suo strumento – un registro superiore diafano e cristallino, ma non
svuotato di colore – è tutto sommato poco calzante per un personaggio da
giocare, essenzialmente, nel registro medio e nella scansione
drammatico-patetica dei recitativi. Restano (non è poco) il bellappiombo
musicale e uneleganza del porgere che darebbe frutti migliori in altro
repertorio, ma comunque indubbia.
Un momento dello spettacolo © Amati Bacciardi
Se
i due divi non deludono, ma neppure esaltano, la coppia degli antagonisti
appare meno adamantina appassionando però lascoltatore. Per un ruolo regale e
barbarico come quello di Agorante, dove la ferocia è giustificata (ancorché mai
smussata) dalla passione, Rossini plasmò una vocalità baritenorile, per molti
aspetti più ardua di quella del tenore protagonista, che richiede un registro
medio scuro e massiccio abbinato a vocazioni alpinistiche in acuto:
lomogeneità dellemissione – stando così le cose – resta unutopia, né Sergey Romanovsky singegna di
simularla. Ma pur tra affondi talvolta ingolati e sopracuti non sempre a fuoco
il personaggio viene potentemente sbalzato, negli slanci come nelle
macerazioni: il piglio eroico dei recitativi, laggressività con cui risolve
certi ritmi puntati, il fraseggio che alterna le ombre del marito fedifrago alle
tenebre dellamante respinto sono tutti tasselli di uninterpretazione
importante. E ancor meglio fa Victoria
Yarovaya, autentico colore di
contralto (ma lestensione, per utilizzare una tipologia vocale postrossiniana,
è quella del “soprano Falcon”), che
incarna la doppiezza diabolica e la gelosia furente di Zomira imprimendole
plastiche anticipazioni weberiane (lEglantine di Euryanthe) e perfino qualche suggestione verdiana (Amneris,
ovviamente).
Pure
gli altri interpreti si fanno onore. Nicola
Ulivieri amministra con autorevolezza, nonostante una voce oggi un po in
disordine, la parte breve ma risolutiva di Ircano. Sofia Mchedlishvili, nei panni ancillari della fida Fatima, è più
di una semplice spalla e sa ritagliarsi un suo spazio nel sestetto. Ma
soprattutto emerge lErnesto di Xabier
Anduaga: “terzo tenore”, secondo una logica di locandina, ma puntualissimo,
freschissimo, squillantissimo (più dei due tenori protagonisti). Lo ritroveremo
a Pesaro in un ruolo primario nei prossimi anni?
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