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La difficile arte dell’opera minore

di Paolo Patrizi
  Ricciardo e Zoraide
Data di pubblicazione su web 29/08/2018  

Quando ci si accosta a un lavoro considerato – a torto o a ragione – “minore” all’interno del corpus di un musicista sommo, gli approcci, fondamentalmente, sono due: o si restituisce la partitura con un fervore che annulla zone grigie e momenti convenzionali (è quel che fa Riccardo Muti nei suoi reiterati approcci con il Verdi degli “anni di galera”) oppure, senza pretendere nobilitazioni oltremisura, si sottolinea la forza innovativa che per intermittenze trapela da quella drammaturgia musicale, imprimendo ai suoi occasionali frammenti di grandezza una dignità diversa, eppure non inferiore, rispetto ai capolavori tout court (ed è quanto faceva Gianandrea Gavazzeni in certe riesumazioni donizettiane). Nel caso di un Rossini discontinuo nella tenuta drammatica, e assai poco frequentato dalla pratica teatrale, come Ricciardo e Zoraide la bussola dovrebbe essere una concertazione capace di far dialogare – è questa la fertile incoerenza dell’opera – convenzionalità dell’impianto e struttura musicale tutt’altro che ovvia: magari col soprammercato d’un regista che stemperi nell’ironia le macchinosità del libretto. Fu ciò che accadde a Pesaro quasi trent’anni or sono, quando a riproporre questo titolo furono Riccardo Chailly e Luca Ronconi. Oggi invece, sempre nel festival della patria di Rossini, tutto quadra un po’ meno: se cast e regia restano da grandi occasioni, è proprio dal podio che giungono risposte poco significative.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

Giacomo Sagripanti ha a disposizione un’orchestra blasonata (la Sinfonica Nazionale della Rai) e una coppia di protagonisti appartenenti al più collaudato star-system (Juan Diego Flórez e Pretty Yende). Però quella stessa orchestra non ha ancora assunto, per “vissuto” professionale e repertorio d’elezione, una specifica idiomaticità operistica (probabilmente la conquisterà col tempo, essendo dall’anno scorso l’ensemble in residence del festival pesarese): avrebbe bisogno, dunque, di una bacchetta capace d’imprimere una sonorità più “teatrale” e un fraseggio più – appunto – operistico a quella lucentezza nitida, a tratti quasi metallica, che è la principale caratteristica fonica di questo eccellente complesso sinfonico. Sagripanti invece sembra assecondare, piuttosto che plasmare, i suoi strumentisti: un direttore più stringente avrebbe forse arginato quelle sbavature dell’assolo del corno che, la sera della “prima”, hanno un po’ pregiudicato la sinfonia. E la presenza dei due divi recava l’impressione di un concertatore defilato, piuttosto che in sinergia con il palcoscenico: se la lunga militanza rossiniana di Flórez ha comunque assicurato il giusto appiombo stilistico, certe ornamentazioni della Yende mostravano un retrogusto liberty da Rossini “pre Renaissance”. Non disdicevole in sé, ma poco congruo per Pesaro.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

Al di là dei momenti più o meno riusciti, ciò di cui resta poca traccia, in questa lettura musicale, sono proprio le qualità strutturali dell’opera: l’interazione dell’orchestra con gli strumenti in scena e fuori scena quale dialettica narrativa, anziché puro esperimento coloristico; la perifericità dei momenti solistici, occasionali tableaux vivant dentro un’azione interamente costruita attorno ai brani d’insieme; la forma a canone e il canto a cappella da intendere non come “momenti sospesi”, ma veicoli di drammaturgia vocale. Tutte cose, al contrario, ben comprese dalla regia di Marshall Pinkoski, autore d’una messinscena musicalissima che restituisce sul piano visivo la doppia anima di questo melodramma conservatore e innovativo a un tempo, spogliato dalle arditezze armoniche del Rossini “napoletano” di quegli anni e, tuttavia, capace di convertire in esercizio di stile un pastiche esotico vetusto. Dispiace che molti abbiano scambiato per calligrafismo l’eleganza della sua impaginazione: l’ottica di un Ottocento ideale e “mentale”, figlio delle grandi esplorazioni geografiche, per ricostruire l’“altrove” della Nubia e l’epoca delle crociate; lo scontro tra religioni e culture – assai pretestuoso in Rossini – lasciato sullo sfondo per porre in primo piano l’afflato lirico e la natura intima della vicenda; le modalità del teatro-danza (coreografie di Jeannette Lajeunesse Zingg) come esternazione di certi rapporti geometrici tra i protagonisti e, al contempo, creazione di un personaggio collettivo (i danzatori) che duplica il ruolo drammatico del coro. 

La Yende e Flórez non sembrano all’apice della forma: lei per una contingente situazione fisica imperfetta, lui perché – piaccia o no – gli anni cominciano a trascorrere anche per questo eterno ragazzo. Dunque, per quanto riguarda il tenore, dimensione lirica privilegiata rispetto a quella virtuosistica, fraseggio insinuante, stile sorvegliato pure in qualche occasionale guasconata, registro sopracuto sempre ampio ma, rispetto a un tempo, meno penetrante e di più limitata gamma dinamica. Della Yende, a parte la minore proprietà sul piano stilistico, può lasciar perplessa una voce tanto discogenica quanto delicata, destinata a far faville in sala d’incisione e, tuttavia, sacrificata negli spazi pletorici dell’Adriatic Arena: anche la nota distintiva e l’inequivocabile pregio del suo strumento – un registro superiore diafano e cristallino, ma non svuotato di colore – è tutto sommato poco calzante per un personaggio da giocare, essenzialmente, nel registro medio e nella scansione drammatico-patetica dei recitativi. Restano (non è poco) il bell’appiombo musicale e un’eleganza del porgere che darebbe frutti migliori in altro repertorio, ma comunque indubbia.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

Se i due divi non deludono, ma neppure esaltano, la coppia degli antagonisti appare meno adamantina appassionando però l’ascoltatore. Per un ruolo regale e barbarico come quello di Agorante, dove la ferocia è giustificata (ancorché mai smussata) dalla passione, Rossini plasmò una vocalità baritenorile, per molti aspetti più ardua di quella del tenore protagonista, che richiede un registro medio scuro e massiccio abbinato a vocazioni alpinistiche in acuto: l’omogeneità dell’emissione – stando così le cose – resta un’utopia, né Sergey Romanovsky s’ingegna di simularla. Ma pur tra affondi talvolta ingolati e sopracuti non sempre a fuoco il personaggio viene potentemente sbalzato, negli slanci come nelle macerazioni: il piglio eroico dei recitativi, l’aggressività con cui risolve certi ritmi puntati, il fraseggio che alterna le ombre del marito fedifrago alle tenebre dell’amante respinto sono tutti tasselli di un’interpretazione importante. E ancor meglio fa Victoria Yarovaya, autentico colore di contralto (ma l’estensione, per utilizzare una tipologia vocale postrossiniana, è quella del “soprano Falcon”), che incarna la doppiezza diabolica e la gelosia furente di Zomira imprimendole plastiche anticipazioni weberiane (l’Eglantine di Euryanthe) e perfino qualche suggestione verdiana (Amneris, ovviamente). 

Pure gli altri interpreti si fanno onore. Nicola Ulivieri amministra con autorevolezza, nonostante una voce oggi un po’ in disordine, la parte breve ma risolutiva di Ircano. Sofia Mchedlishvili, nei panni ancillari della fida Fatima, è più di una semplice spalla e sa ritagliarsi un suo spazio nel sestetto. Ma soprattutto emerge l’Ernesto di Xabier Anduaga: “terzo tenore”, secondo una logica di locandina, ma puntualissimo, freschissimo, squillantissimo (più dei due tenori protagonisti). Lo ritroveremo a Pesaro in un ruolo primario nei prossimi anni?



Ricciardo e Zoraide



cast cast & credits
 
trama trama



Un momento dello spettacolo visto l’11 agosto scorso al Rossini Opera Festival 
 
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