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La rivincita dell’attore

di Sara Mamone
  At Eternity's Gate
Data di pubblicazione su web 09/09/2018  

Non manca certo di ambizioni l’ultimo film di Julian Schnabel, artista newyorkese di lungo corso e di ininterrotta fortuna, artista visuale a tutto tondo, pittore, scultore, regista, inesausto indagatore dei misteri dell’arte e, per il cinema, autore di numerose opere tra cui la prima dedicata al pittore Basquiat (1996) e le successive: Before Night Falls presentato a Venezia nel 2000 (Gran premio della Giuria e Coppa Volpi all’interprete Bardem) e Le scaphandre et le papillon (2007) presentato a Cannes e premiato in giro per il mondo. Il Lido ha poi ospitato il deludentissimo Miral nel 2010. E rieccoci a Venezia (edizione 2018), ancora con una riflessione soggettiva sull’arte, con un ritorno alla biografia che ambisce a ben altro che al docufilm.



Una scena del film
© Biennale Cinema 2018

Eccoci dunque alla vita di Van Gogh, dichiarato dal regista pretesto per «un film sul significato dell’essere artista. È finzione, e nell’atto di perseguire il nostro obiettivo, se tendiamo verso la luce divina, potremmo addirittura incappare nella verità. L’unico modo di descrivere un’opera d’arte è fare un’opera d’arte». Quest’ultima rischiosissima affermazione ben inchioda il film al suo fallimento. Che ci sarebbe comunque stato anche se le ambizioni narcisistiche del suo autore fossero state più contenute. Che ce ne facciamo di tutte le scene ispirate all’opera di Van Gogh (da cui pur promanerebbe qualche grazia visiva apprezzabile se lo scopo non fosse titanicamente filosofico?), che ce ne facciamo dei proclami di Gauguin espressi in fumosi locali zeppi di artisti? E poi che emozione possiamo provare nelle grandi inquadrature dei campi alla luce di Arles se ci insegue il fantasma di un enunciato irraggiungibile? L’opera può forse trovare una sua collocazione congrua in qualche aula di accademia di belle arti. Ma francamente la partecipazione all’ultima edizione del festival di Venezia pare più il risultato di un’affettuosa consuetudine che non di una scelta critica. 


Una scena del film
© Biennale Cinema 2018

C’è però la possibilità di un ribaltamento nella modalità della visione, la possibilità di lasciar perdere tutte le pretestuose presunzioni, poetiche e visive, concentrandosi esclusivamente sul protagonista. Se questo film non c’entra con Van Gogh ma è, più umilmente, un film sul mestiere (sull’Arte?) dell’attore, ecco svanire le banalità del discorso, ecco imporsi il volto espressivo e tormentato di Willem Dafoe. Ecco riemergere le sue interpretazioni del passato, ecco asciugarsi il suo volto in una sofferenza cristologica che rimanda inevitabilmente al discusso ma capitale The Last Temptation of Christ di Martin Scorsese, che ormai da trent’anni definisce l’aura del suo protagonista. Possiamo allora apprezzare l’asciuttezza di un’interpretazione che conduce all’estremo la “disincarnazione” dell’attore, realizzando il sogno di Louis Jouvet. Dubitiamo che le riflessioni del grande attore francese facciano parte del bagaglio culturale di Schnabel e ci limitiamo però con piacere a constatare una bella vittoria dell’attore sull’autore o, meglio, una rivendicazione di paternità pienamente legittima.




At Eternity's Gate
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La locandina
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