Non
manca certo di ambizioni lultimo film di Julian
Schnabel, artista newyorkese di lungo corso e di ininterrotta fortuna, artista
visuale a tutto tondo, pittore, scultore, regista, inesausto indagatore dei
misteri dellarte e, per il cinema, autore di numerose opere tra cui la prima
dedicata al pittore Basquiat (1996)
e le successive: Before Night Falls
presentato a Venezia nel 2000 (Gran premio della Giuria e Coppa Volpi
allinterprete Bardem) e Le scaphandre et le papillon (2007) presentato
a Cannes e premiato in giro per il mondo. Il Lido ha poi ospitato il
deludentissimo Miral nel 2010. E
rieccoci a Venezia (edizione 2018), ancora con una riflessione soggettiva sullarte, con un
ritorno alla biografia che ambisce a ben altro che al docufilm.
Una scena del film © Biennale Cinema 2018
Eccoci dunque alla vita di Van
Gogh, dichiarato dal regista pretesto per «un film sul significato
dellessere artista. È finzione, e nellatto di perseguire il nostro obiettivo,
se tendiamo verso la luce divina, potremmo addirittura incappare nella verità.
Lunico modo di descrivere unopera darte è fare unopera darte».
Questultima rischiosissima affermazione ben inchioda il film al suo
fallimento. Che ci sarebbe comunque stato anche se le ambizioni narcisistiche
del suo autore fossero state più contenute. Che ce ne facciamo di tutte le
scene ispirate allopera di Van Gogh (da cui pur promanerebbe qualche grazia
visiva apprezzabile se lo scopo non fosse titanicamente filosofico?), che ce ne
facciamo dei proclami di Gauguin espressi in fumosi locali zeppi di artisti? E
poi che emozione possiamo provare nelle grandi inquadrature dei campi alla luce
di Arles se ci insegue il fantasma di un enunciato irraggiungibile? Lopera può
forse trovare una sua collocazione congrua in qualche aula di accademia di
belle arti. Ma francamente la partecipazione allultima edizione del festival di Venezia pare più il risultato di
unaffettuosa consuetudine che non di una scelta critica.
Una scena del film © Biennale Cinema 2018
Cè
però la possibilità di un ribaltamento nella modalità della visione, la
possibilità di lasciar perdere tutte le pretestuose presunzioni, poetiche e
visive, concentrandosi esclusivamente sul protagonista. Se questo film non
centra con Van Gogh ma è, più umilmente, un film sul mestiere (sullArte?)
dellattore, ecco svanire le banalità del discorso, ecco imporsi il volto
espressivo e tormentato di Willem Dafoe.
Ecco riemergere le sue interpretazioni del passato, ecco asciugarsi il suo volto
in una sofferenza cristologica che rimanda inevitabilmente al discusso ma
capitale The Last Temptation of Christ di Martin Scorsese, che
ormai da trentanni definisce laura del suo protagonista. Possiamo allora
apprezzare lasciuttezza di uninterpretazione che conduce allestremo la
“disincarnazione” dellattore, realizzando il sogno di Louis Jouvet. Dubitiamo che le riflessioni del grande attore
francese facciano parte del bagaglio culturale di Schnabel e ci limitiamo però
con piacere a constatare una bella vittoria dellattore sullautore o,
meglio, una rivendicazione di paternità pienamente legittima.
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