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Di tiranni impotenti e altra umanità

di Caterina Barone
  Eracle / Edipo a Colono
Data di pubblicazione su web 22/06/2018  

La scena del potere, il titolo identificativo del 54° Festival del Teatro Antico al Teatro Greco di Siracusa, appare davvero il più adatto a questi nostri tempi politicamente travagliati dove spettacolo, populismo e ansia di dominio sembrano intrecciarsi in un nodo perverso e inestricabile. I testi scelti – due tragedie, Eracle di Euripide ed Edipo a Colono di Sofocle (in cartellone fino al 24 giugno), e una commedia, Cavalieri di Aristofane (che andrà in scena separatamente a chiusura del festival dal 29 giugno all’8 luglio) – propongono una riflessione sul tema del kratos, il “potere”, e sulla figura del tiranno, un termine etimologicamente legato alla parola greca tyrannos, “re”, che già nell’Atene del V secolo a.C. era andato caricandosi dell’accezione deteriore.

Sebbene segnate da profonde diversità poetiche e stilistiche, le due tragedie, in cui la sfera personale si coniuga con la dimensione politica, presentano una significativa consonanza contenutistica nel disegnare la parabola di due eroi benefattori dell’umanità: Eracle che combatte contro mostri terribili ed Edipo che libera i cittadini di Tebe dal dominio sanguinoso della Sfinge. Entrambi per disegno divino commettono atroci crimini contro i loro stessi congiunti e vanno così incontro a un destino di dolore e di sofferenza divenendo icona della precarietà della gloria e della potenza umana. Entrambi, inoltre, sono oggetto della prepotenza e della persecuzione di due tiranni, rispettivamente Lico e Creonte, incarnazione della spietatezza di sovrani guidati nelle loro azioni da interessi egoistici e crudeltà.


Un momento dello spettacolo
© Gianni Luigi Carnera

La rappresentazione a sere alterne delle tragedie ha posto in dialettica antitesi due cifre stilistiche divergenti: l’una anticonvenzionale e di “rottura”, quella di Emma Dante cui è stata affidata la direzione dell’Eracle; l’altra maturata nel solco della tradizione ad opera del regista greco Yannis Kokkos che ha riversato nell’Edipo a Colono una sapienza antica.

La scelta artistica operata dalla regista palermitana è evidente già nella scenografia (creazione di Carmine Maringola) che chiude lo spazio dell’orchestra con un muro bianco, largo venti metri e alto sette, sul quale spiccano alcuni teschi e più di duecento ritratti fotografici di defunti, dal sapore retrò, come se fossero gli antenati di tutti noi. Davanti a esso sono dislocate una serie di tombe aperte dalle quali spuntano sette croci lignee che girano come pale eoliche e affiancano una grande vasca colma d’acqua lustrale. Un’ambientazione che richiama un’atmosfera di dolore e di ritualità. 

Ma non è questa la direzione che prende lo spettacolo: irrompono infatti sulla scena tre donne vestite di abiti sgargianti, fuxia e neri che si muovono vorticosamente e fanno da apripista a una sorta di processione con la quale avanzano, accompagnati dal suono tumultuoso di tamburi, tutti i personaggi della tragedia. Ciascuno di loro presenta il proprio ruolo. Vediamo subito che la “coloritura” è grottesca: i movimenti, le voci e i costumi stessi (esuberanti nelle forme impresse da Vanessa Sannino) indicano un percorso sui generis che la presenza di un cast tutto di donne contribuisce a connotare in maniera anticonformista. Oltre ai personaggi femminili – Megara (Naike Anna Silipo), Iris e Lyssa (Francesca Laviosa e Arianna Pozzoli) – anche quelli maschili sono interpretati da attrici: Anfitrione, padre di Eracle (Serena Barone); Lico, il tiranno che ne perseguita la moglie Megara e figli (Patricia Zanco); Teseo, l’amico fedele (Carlotta Viscovo); il Messaggero (Katia Mirabella) e lo stesso Eracle (Mariagiulia Colace).


Un momento dello spettacolo
© Maria Pia Ballarino

Le chiavi di lettura sono molteplici e compatibili tra di loro: questa scelta può essere vista come una voluta contrapposizione alla convenzione del teatro greco che prevedeva la presenza in scena di soli uomini, e dunque costituire un’elementare e poco significativa rottura di uno schema formale codificato; al tempo stesso può caricarsi di senso allargando il dramma di Eracle – che reso folle dalla dea Era a lui ostile stermina la propria famiglia – dalla dimensione prettamente maschile dell’eroismo e della forza fisica a una prospettiva ecumenicamente umana. Il semidio figlio di Zeus che affronta le dodici proverbiali fatiche appare, grazie all’interpretazione femminile, in una dimensione più complessa e sfaccettata. Un essere ermafrodito – lo definisce Emma Dante – che ha dentro di sé maschio e femmina intimamente uniti. La sua impotenza di fronte al destino che lo travolge diventa icona di un’umanità straziata, con le sue fragilità ma anche con la sua capacità di riscatto e di superamento del dolore. Qui la regista si muove sulla via indicata da Euripide che, invertendo cronologicamente la successione degli eventi mitici col posticipare, contrariamente alla vulgata, la strage dei familiari al compimento delle fatiche, vuole sottolineare la precarietà della condizione umana. L’eroe invincibile e civilizzatore, che ha liberato il mondo da mostri terribili, soccombe senza colpa travolto dalla follia. 

Ma com’è nel suo stile, la regista non indulge affatto a pietismo e patetismo. Il corpo massiccio e possente di Mariagiulia Colace è già di per sé un deterrente a qualunque interpretazione lacrimosa. L’ingresso in scena di Eracle, che avviene nel momento di massima tensione drammatica, quando ormai la morte incombe su Megara e i figli, muove il pubblico al riso. L’eroe arriva baldanzoso e firma autografi seguito da un servo carico di bagagli simile a Dioniso accompagnato da Xantia nelle Rane di Aristofane. In mano tiene un mazzo di rose rosse che porge alla sposa, ignaro degli eventi, con un piglio farsesco, come fosse la caricatura di un pupo siciliano. Il pensiero va all’Eracle dell’Alcesti euripidea con la sua caratterizzazione comica in un contesto luttuoso che non esclude tuttavia una pregnanza di senso.

Peraltro già la recitazione di Anfitrione, il primo a parlare nel prologo, rifugge da intonazioni drammatiche o altisonanti (come peraltro la traduzione di Giorgio Ieranò), giocata com’è su un forte accento siciliano e su toni striduli e graffianti che nel ricordo degli spettatori meno giovani riportano alla memoria la voce ruvida di Tina Pica. Il padre putativo dell’eroe è una persona fragile, costretta a muoversi su una sedia a rotelle mentre per alzarsi si appoggia a due stampelle che poi brandisce invano contro il feroce Lico, con un prevalere dell’aspetto grottesco su quello tragico.


Un momento dello spettacolo
© Franca Centaro

Né Lico, tronfio e ottusamente feroce, è un tiranno credibile. Avido di potere, fonda la sua forza sulla debolezza delle proprie vittime e, maramaldeggiando scortato dai suoi scherani (sono donne anche loro), si compiace di usare violenza su chi non può ribellarsi. Quando verrà colpito a morte da Eracle, la sua anima lascerà vorticosamente la vita sotto forma di una nera figura danzante.

A incarnare la drammaticità della situazione è invece il personaggio di Megara interpretato da Naike Anna Silipo, assai credibile nella parte della mater dolorosa affranta per il destino di morte dei figli e suo ma capace di mantenere intatta pur nell’angoscia la propria dignità e di circondare i figli di amore autentico. Si deve a lei l’unica scena schiettamente tragica dello spettacolo e carica di una potente forza rituale, quella della vestizione funebre dei figli, preceduta da un lavacro purificatore all’interno della grande vasca e accompagnata da un coinvolgente tappeto sonoro.

Dopo il racconto della strage fatto dal messaggero, la scena tra Eracle e Teseo riprende ancora una volta il motivo dei pupi che si fronteggiano. Pur nell’atteggiamento parodico emerge la forza della philia, il rapporto di autentica amicizia che lega tra loro i due eroi e che offre al figlio di Zeus un sostegno capace di dissuaderlo dal suicidio: se gli dei sono ostili e spietati, gli esseri umani possono stringersi l’un l’altro e condividere il dolore.

Nella scena finale si compie il rito funebre in onore delle vittime in un’atmosfera di intensa emotività di impronta mediterranea, dove le musiche e i movimenti scenici celebrano la sacralità della morte e sciolgono il dolore in un’inattesa immagine di grande bellezza: le nere gonne del Coro – i soli uomini in scena, che antifrasticamente incarnano un gruppo di anziane donne – si trasformano, mostrando il loro rovescio, in colorati cuscini di rose che affiancano i quattro cadaveri circondati da teschi. Una sorta di quieta pacificazione sembra scendere come un balsamo sull’amara conclusione della vicenda tragica.

Infrangendo iconoclasticamente i canoni della tragedia Emma Dante non l’ha tuttavia privata di senso e ne ha saputo comunicare al pubblico la densità concettuale facendo uso del linguaggio che le è proprio: l’espressività del corpo in sostituzione della sottigliezza del logos. Il testo euripideo ha parlato anche e soprattutto attraverso il ritmo travolgente delle danze frenetiche e trascinanti di Manuela Lo Sicco (di intenso impatto quelle vorticose alla maniera dei dervisci rotanti) sul melting pot musicale di Serena Ganci imprimendo allo spettacolo potenza emotiva e forza.


Un momento dello spettacolo
© Le Pera

Di segno diametralmente opposto l’ispirata messa in scena di Edipo a Colono a opera del regista greco naturalizzato francese Yannis Kokkos dove la meditazione sul senso ultimo della vita dell’uomo ha toccato vertici di poetica teatralità.

Un testo di abissale profondità, ultima fatica di Sofocle ormai novantenne. La perizia lirico-drammaturgica dell’autore e la densità filosofica del suo pensiero si fondono con l’autenticità della sua esperienza umana, giunta ormai sulla soglia del trapasso. E spesso l’allestimento di questo dramma ha goduto del valore aggiunto dato dall’interpretazione dell’attore protagonista. Come fu per l’edizione siracusana del 2009 con un intenso Giorgio Albertazzi diretto da Daniele Salvo, così è per questo allestimento affidato alla sensibilità di Massimo De Francovich: non ci sono tirate stentoree né retorica nel restituire il logos; la parola sofoclea viene veicolata nella sua essenzialità attraverso la traduzione alta e poetica di Federico Condello. Misura e intensità costituiscono la cifra stilistica connotativa di uno spettacolo ieratico e minimalista che non rifugge da pause di silenzio e non ricerca il favore del pubblico con soluzioni spettacolari a effetto, ma segue un percorso rigoroso nel quale si avverte forte il senso di un mistero trascendente e della sacralità che lo accompagna.


Un momento dello spettacolo
© Franca Centaro

Pochi e potenti i segni scenici. L’immagine esteriore di Edipo ne comunica con immediatezza la condizione di esule, emarginato e mendico. Visivamente, con la sua veste sdrucita, di colore chiaro e di foggia atemporale, il protagonista spicca in dialettico contrasto con gli altri personaggi che indossano moderni abiti neri o dalle tinte scure (sobria creazione di Paola Mariani), con l’eccezione della giovane Ismene.

Grigia è la scena ideata dallo stesso Kokkos, scarna, scandita da una metallica torre di vedetta, un paio di massi e una macchia di alberi: una sorta di astrazione paesaggistica che colloca in una dimensione sacrale più che reale l’intera vicenda. Sul fondo si staglia un’imponente statua a mezzobusto; inclinata in avanti volge le spalle al pubblico ed è attraversata da un varco per il quale passerà Edipo alla fine della tragedia avviandosi verso il boschetto sacro retrostante dove l’attende la morte. Nell’oscurità che avvolge il teatro, Edipo avanza dal buio, quello della sua tormentata esistenza, alla luce della redenzione e della pacificazione, come indica il chiarore abbagliante che erompe dalle fronde degli alberi. È la metafora del percorso esistenziale che l’uomo deve compiere per liberarsi di ogni scoria morale e attingere a una dimensione divina. Macchiatosi inconsapevolmente di parricidio e incesto, Edipo con la sua cecità e l’esilio riscatta le proprie colpe e diventa totem benefico per Atene, la città che generosamente lo accoglie per decisione del re Teseo in nome del dovere di accoglienza e di ospitalità.


Un momento dello spettacolo
© Gianni Luigi Carnera 

Il dialogo tra il giovane sovrano, nel pieno del proprio potere (interpretato con composta autorevolezza da Sebastiano Lo Monaco), e l’anziano esule, un tempo re temuto e carismatico, è improntato al reciproco rispetto e costituisce uno dei nodi semantici della tragedia: l’imperativo morale di accogliere chi bussa supplice alla porta, sapendo andare al di là della mera apparenza e facendosi guidare da sentimenti di pietas e di fratellanza. 

Di segno opposto le due scene di aspro confronto tra Edipo e Creonte, prima, e con il figlio Polinice, poi. Abiti militareschi, intonazione decisa e ferma, gestualità autoritaria e aggressiva caratterizzano il sovrano di Tebe (reso senza eccessi attoriali da Stefano Santospago) venuto a ricondurre l’esule in patria non spinto da sentimenti filantropici, ma per godere dell’azione benefica che il corpo dell’eroe, una volta morto e sepolto, può esercitare sulla città. La superba arroganza e la crudeltà che lo portano a rapire Antigone (Roberta Caronia) e Ismene (Eleonora De Luca) per lasciare Edipo senza sostegno, si scontrano con il fermo proposito umanitario di Teseo incurante delle sue minacce. Né Edipo si piega alla sua prepotenza che anzi fronteggia con parole severe e sprezzanti, con lo stesso piglio sicuro con cui da lì a poco caccerà Polinice (Fabrizio Falco) venuto a chiedere il suo aiuto nella guerra che lo contrappone al fratello Eteocle per il dominio su Tebe. Le lunghe sofferenze hanno inasprito l’animo dell’esule che non perdona al figlio di averlo cacciato dalla città e di averlo costretto a una vita miserabile e raminga. Polinice gli è odioso, non ne ha compassione nonostante sia ora a sua volta un esule, e su di lui rovescia la sua collera rabbiosa, maledicendolo e predicendone la morte imminente, destinato a uccidere e ad essere ucciso con un delitto fratricida. Autentico amore Edipo lo prova solo per le figlie Ismene e soprattutto Antigone che lo ha seguito nell’esilio e gli ha consentito di sopravvivere a una prova tanto dolorosa.

Nell’economia dello spettacolo un ruolo importante giocano i Cori, uno maschile (guidato da Davide Sbrogiò) e uno femminile, dai movimenti misurati e intensi, che talvolta recitano all’unisono e cantano sulle musiche di Alexandros Markeas: un impasto di melodie tradizionali bizantine, medievali, sefardite e ottomane, dove il canto a cappella si sposa a parti elettroniche con elementi vocali e strumentali registrati ed elaborati, creando un’atmosfera di dolore sonoro, sospeso tra ritualità e meditazione.



Eracle / Edipo a Colono
Eracle
cast cast & credits
 
Edipo a Colono
cast cast & credits
 


Mariagiulia Colace (Eracle)
© Gianni Luigi Carnera



Massimo de Francovich (Edipo)
© Le Pera

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