Verdi lavorò alla partitura durante il suo soggiorno parigino, cercando di mediare tra le necessarie convenzioni del teatro dopera italiano e i consigli che gli giungevano dal grand opéra francese. Ne risultarono strutture formali nuove e deffetto, quali ad esempio arie che non sviluppano a pieno lo schema cantabile-cabaletta, cedendo il passo a soluzioni di maggiore (ma non estremizzata) continuità e propulsività drammatica. E ancora: passi corali distribuiti sapientemente in più punti dellopera, dai richiami di marcia nelliniziale «Viva lItalia!» alla simultaneità di personaggi, senso e luoghi del «Deus meus / O tu che desti il fulmine» in apertura di quarto atto. Verdi costruì veri e propri tableaux che amplificavano il meccanismo convenzionale delle relazioni tra i protagonisti Arrigo-Lida-Rolando nella dimensione pubblica delleroismo patrio.
Un momento dello spettacolo
© Pietro Paolini/TerraProject/Contrasto
Non poteva che essere trionfo: la prima fu celebrata il 27 gennaio 1849 in una Roma senza papa allalba della Repubblica, presente ad applaudire il futuro triumviro Mazzini. Le ovazioni furono tali da far ripetere lintero quarto atto, come riporta lo stesso Roger Parker – studioso tra i più agnostici del Verdi “Padre della Patria”. «Vittoria! Vittoria!», dunque, ma fu spettacolo breve: sedato nel sangue il 48, linvisa Battaglia di Legnano dovette cambiare faccia, diventando Lassedio di Arlem o Lida, fino a esser messa da parte per la sua smaccata natura “politica”.
Fu Verdi vero patriota? Affermarlo con certezza è impossibile. Ciò che conta, seduti a teatro oggi come allora, è che tale lo si percepisca. In questo senso, la scommessa del Maggio è stata non solo di recuperare un titolo desueto, ma di ripulirlo dalle polveri dei cannoni e della memoria collettiva, inserendo La battaglia di Legnano in un programma che riflette sui confini della libertà in unepoca di laceranti opposizioni identitarie (di genere, patria e, ahinoi, razza). Tanto più stridente, allora, è sentire quel «Viva lItalia!» dopo un breve video in apertura di serata che promuove Firenze alla “chistè o Paese d ‘o sole”, affidando a voci di popolo il pucciniano «Nessun dorma» (N.B.: il più intonato è il macellaio che affetta fiorentine). Metà teatro applaude con poca convinzione, laltra metà fischia con vigore, ma bastano poche note della Sinfonia per dimenticare la faccenda.
Un momento dello spettacolo
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Il direttore Renato Palumbo mostra tutta la propria esperienza con le opere del primo Verdi proponendo una lettura di raffinata precisione ritmica e dinamica. Il nitore della testura orchestrale è lucidamente perseguito, ottenendo che fiati e soprattutto ottoni rispondano puntualmente alle richieste di una strumentazione che guarda alla Francia grandoperistica. La bacchetta di Palumbo argina gli eccessi enfatici: ne consegue che le pagine più dense, gli accenti e gli “slanci” fissati su carta da Verdi inchiodino lo spettatore alla sua poltrona con rinnovato stupore proprio perché sorprendenti. Massa di suono e precisione, misura che non si autodenuncia come tale: sono tra gli elementi più vincenti e avvincenti della serata.
Rispettare il Verbo di Verdi e lasciare che lo spettatore «possa far rima da solo con la contemporaneità» (libretto di sala, p. 59) sono invece i presupposti della regia di Marco Tullio Giordana.Che però non convince. Correttezza ce nè tanta, troppa: poche idee essenziali, mai un guizzo come quelli che pure, mutatis mutandis, lintransigente Muti si concesse nel Trovatore scaligero del 2000, ben consapevole che Verdi è in ogni caso morto da più di un secolo. Il coro entra, si guarda un po attorno, poi ciascuno raggiunge la propria posizione. Lo stesso vale per i solisti: gesti convenzionalissimi; abbracci tra Rolando e Arrigo che falliscono nellidentificare una vera socialitas tra maschi-eroi; prossemica soffocata da uno spazio scenico vuoto e enorme in cui, evidentemente, nessuno ha detto a nessuno come muoversi. Si badi, questa non è critica di staticità, ma di assenza di quella dimensione statuaria dei caratteri e del coro che, a voler rispettare il tracciato di Verdi, sarebbe dovuta esserci.
Di maggiore interesse le scene e le luci curate da Gianni Carluccio che impiega, stilizzandoli, forme e materiali del Medioevo lombardo. Col suo chiudersi o aprirsi dai lati verso il centro, il meccanismo scenico mobile sottolinea la dimensione del dramma, ora pubblica ora privata. Al vertice del conflitto tra i tre protagonisti, nellultimo quadro del terzo atto, il fondo è completamente serrato se non per un finestrone, mentre in proscenio calano gli scheletri di due ogive, a simulare una stanza chiusa in cui allo spettatore sia concesso spiare. Ancora una volta, il gettarsi di Arrigo dal finestrone per raggiungere la Compagnia della Morte è gesto corretto, ma non certo tale da far trattenere il fiato. Le luci, sempre di Carluccio, giocano sulla polarizzazione tra saturazione e desaturazione, in armonia con i bei costumi di Francesca Livia Sartori e Elisabetta Antico. Nella scena della Sala del municipio di Como (atto II), ad esempio, i magistrati e gli anziani della città lacustre sono vestiti di rosso-arancione e inondati di luce calda, mentre lingresso del Barbarossa e dei suoi uomini in metalli è smagliante nei freddi toni di bianco e blu.
Un momento dello spettacolo
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Per quanto concerne il cast, i “lauri” della serata vanno allArrigo di Giuseppe Gipali. A prescindere da qualche incertezza nellinsidiosa aria di sortita «La pia materna mano», il tenore albanese mostra un ottimo controllo tecnico su una voce di bel timbro e volume da lirico pieno. Lestensione è pienamente risolta sia in acuto sia al grave, la linea di canto sempre rispettata senza straripamenti. Il tenore cresce col procedere dello spettacolo profondendosi in commoventi, timbratissime mezze voci nelle battute finali dellopera. Appena un gradino sotto si colloca Giuseppe Altomare (Rolando): la voce ha notevole volume e resistenza, non si percepisce stanchezza alla fine della lunga sequenza di arie e pezzi dinsieme del terzo atto; anche se il baritono risolve la parte eccedendo in generosità e lasciandosi sfuggire non poche possibili sfumature espressive. Meno convincente è la prova di Vittoria Yeo (Lida). Nonostante si muova sulla scena con passo più sicuro e convincente dei suoi colleghi, lemissione presenta alcune disomogeneità tra gravi non perfettamente puntati e acuti bronzei ma “precari”, raggiunti in alcuni casi dal basso. Insomma, il personaggio cè ed è ben sbalzato, ma non sempre nella dimensione della voce. Sarà interessante sentirla nei panni di Lady Macbeth a luglio, nellultimo appuntamento del Festival, sotto la bacchetta di Riccardo Muti.
Degno di nota il Federico Barbarossa di Marco Spotti, imponente per voce e figura e efficace nonostante la brevità della parte, resa ancor più evidente dallesiguità dei movimenti scenici: ingresso dal fondo, «Il destino dItalia son io!» cantato al centro del proscenio (mentre Arrigo e Rolando non si schiodano dalle loro posizioni sulla destra), uscita di scena dalla quinta sinistra. Buone le prove di tutti i comprimari, a partire da Giada Frasconi (Imelda), Adriano Gramigni (il Podestà di Como) e Rim Park (Uno scudiero/Un araldo), giovani artisti dellAccademia del Maggio. Il Marcovaldo di Min Kim ha sufficiente veleno nel corpo e nella voce, ma sembra calcare senza troppa convinzione gli angoli dombra creati per lui da luci e scenografia.
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Imperiosi gli interventi dei due Consoli di Milano interpretati da Egidio Massimo Naccarato e Nicolò Ayroldi baritoni del Coro del Maggio preparato da Lorenzo Fratini. La compagine offre una prova che va dal buono allentusiasmante: regge bene i lunghi passaggi a cappella, incubo di qualsiasi maestro del coro. Accende gli animi nel forte più di quanto commuova nel piano, garantendo vere e proprie esplosioni emotive: ad esempio nella scena del giuramento a inizio terzo atto. Meglio gli uomini delle donne, laddove è spesso il contrario.
Applausi scroscianti per tutti, un po meno calorosi per Gipali, che forse sconta la colpa di non avere il volume debordante di un Franco Corelli (l'Arrigo della leggendaria edizione in disco del 1961). Menzione speciale: dopo i saluti del direttore e dellorchestra, coro cast comparse si aprono in due ali sul palco e fanno spazio ai tecnici, ai sarti, ai costumisti. Insomma, a quella cinquantina e più di invisibili senza cui nessuno spettacolo operistico esisterebbe: quanto sarebbe bello poterli ringraziare più spesso.