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Si sta come le cozze in mezzo al mare

di Giulia Bravi
  Belve
Data di pubblicazione su web 07/05/2018  

Sipario chiuso, luci accese: gli sguardi curiosi dai palchi e le voci del pubblico ancora riempiono la platea, quando Monica Demuru irrompe con passo deciso sul palcoscenico mimando l’antico gesto dell’apertura del sipario. Cala il silenzio. Schiocca le dita e si spengono le luci in sala. Così l’attrice mette in moto Belve, una farsa in prima nazionale al Teatro Metastasio di Prato, creatura ultima generata dalla mente di Massimiliano Civica e dalla penna di Armando Pirozzi. Belve: un titolo giallo su fondo nero per raccontarci una “farsa” contemporanea. 
 
Dopo aver affrontato con successo la tragedia classica con Alcesti di Euripide e Un quaderno per l’inverno di Armando Pirozzi (rispettivamente Premio UBU miglior regia 2015 e 2017) che il critico Massimo Marino ha definito “commedia lirica”, Civica si cimenta per la prima volta con il genere farsesco (tinto di noir). Così recita il libretto di sala: «credo negli attori e in un teatro che metta al centro gli attori. Per questo sono sempre stato affascinato dalla farsa, genere teatrale che storicamente ha costituito il “tempo dell’apprendistato” e il banco di prova dei grandi attori».   
 
Sei gli interpreti in scena. I protagonisti della storia sono Pippo (Aldo Ottobrino) ed Elisabetta (Monica Demuru), una coppia piccolo borghese tra i trentacinque e i quarant’anni, senza figli: il rientro a casa del marito stressato dalla dura giornata di lavoro, la mogliettina frustrata che aspetta (e spera) in un impeto di rinata passione, gli odiati vicini che si autoinvitano a cena turbando l’apparente normalità della casa. Siamo in sala da pranzo, la tavola apparecchiata finemente nasconde sotto di sé i “panni sporchi” della famiglia: la grande abbuffata di cozze è  predisposta.   


Un momento dello spettacolo
© Duccio Burberi
 
I vicini, Giorgetta (Alessandra De Santis) e Giocondo Di Vano (Salvatore Caruso), sono due personaggi dall’aspetto ridicolo quanto i loro nomi: alta e in carne lei, basso e magro lui. Creano da subito con l’altra coppia un contrasto molto forte: tanto Pippo ed Elisabetta sono nervosi e irascibili, quanto Giocondo e Giorgetta incarnano serenità e giovialità esasperanti; scuri negli abiti e adombrati gli uni, candidi e solari gli altri.   
 
Confinati nello spazio ideale delineato dallo schermo cinematografico sullo sfondo, i quattro si interfacciano di volta in volta (di gag in gag) con la galleria di macchiette create dai depositari della leggerezza della pièce: i trasformisti Alberto Astorri e Vincenzo Nemolato, gli unici a non abbandonare mai la dimensione farsesca.   
 
Il testo di Pirozzi racconta la deriva di una società ancora oggi eternamente divisa tra pochi ricchi e molti poveri, ma con un’insidia in più: l’illusione del povero di poter diventare ricco. È questa la “teoria della cozza” che risucchia dal mare quanto può senza restituire niente, così come il ricco spreme il povero senza pietà alcuna: teoria espressa da Giocondo in un momento di “verismo” forzatamente didascalico. Si racconta così il confronto spietato tra generazioni, nel quale i figli cercano di annientare i padri per sopravvivere, per mantenere o conquistarsi un posto di potere nella società, quella che conta. La donna, come una moderna Lady Macbeth dedita all’alcool, spinge il marito all’omicidio per interesse: un omicidio che sembra irrealizzabile e che porta la coppia alla disperazione a tratti comica, a tratti drammatica.   


Un momento dello spettacolo
© Duccio Burberi
 
Lo spaesamento si consuma in una continua osmosi tra dramma e farsa nella prospettiva attor-centrica dichiarata del regista. A dare una direzione al testo sono i personaggi con le loro espressioni, intonazioni e gesti fatti di comicità fisica, di macchiette e gag da vaudeville. Una messinscena che tenta di essere intelligibile a più livelli perché, come recita Giocondo rappando in rima baciata, «non si rima solo per il pubblico amico, a volte bisogna fare qualcosa anche per il critico»; ma ci si riesce solo in parte. Non mancano gli omaggi alla tradizione farsesca, da Plauto a Scarpetta, con tanto di agnizione e momento di festa finali, associati a colpi di scena alla Ionesco, elementi di “surrealtà” alla Franca Valeri inseriti in una dimensione onirica degna di Stefano Benni.   
 
La mano del regista è onnipresente nella macchina della finzione che sul finale ne risulta appesantita. Complice il teatro Metastasio, i cui spazi non hanno giovato alla godibilità dell’azione: l’avremmo vista più adatta per un ridotto, luogo meglio predisposto al contatto del pubblico con il motore della scena, l’attore. 


Belve, una farsa
cast cast & credits
 



 
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