Ai
lati della panchina di una piazza, allombra degli ultimi fiori autunnali di
jacaranda, siedono due sconosciuti, uno scrittore cieco e un banchiere. Si
scambiano qualche parola di circostanza, discutono del più e del meno e
condividono alcune informazioni di superficie sulle loro vite. Allimprovviso
la loro conversazione prende una piega inaspettata. Lo scrittore inizia a
riflettere ad alta voce sulla casualità del loro incontro su quella panchina,
sulle innumerevoli possibilità che, al mutare di una semplice variabile, non si
sarebbero mai incrociati e le rispettive vite sarebbero state diverse. «Ogni
incontro casuale ha la complessità delluniverso», dichiara solennemente lo
scrittore, proprio come ogni «incontro mancato è un grande enigma». Il
banchiere rimane incantato da queste parole, al punto che inizia ad aprirsi con
il misterioso interlocutore. Il racconto che ne seguirà catapulterà il cieco in
una intricata ragnatela di destini incrociati, una trama destinata a infittirsi
sempre di più con il succedersi di altri incontri “casuali” (una giovane scultrice, una donna enigmatica e, indirettamente, una psicologa) che lo avvilupperanno
fin quasi a soffocarlo.
Un momento dello spettacolo © Luca Del Pia
A pochi mesi dalla conclusione del
fortunatissimo tour nei maggiori teatri italiani de Il malato immaginario, Andrée Ruth Shammah torna per la terza
volta a dirigere Gioele Dix –
insieme a Elia Schilton, Roberta Lanave, Sara Bertelà e Laura
Marinoni – in Cita a Ciegas,
adattamento, inedito per lItalia, dellopera di maggior successo del
drammaturgo argentino Mario Diament.
Se cimentandosi con Molière la
regista aveva scelto di rinnovare sistematicamente la “sceneggiatura” di
partenza, con lintento di irrobustire e allo stesso tempo rendere maggiormente
fruibile per un pubblico contemporaneo la vena comica originaria, il testo di
Diament è invece trattato con un approccio conservativo mediante pochi
cambiamenti di rilevo. Uno dei più importanti è la riduzione allosso dei
riferimenti spaziali. Emblematico il caso della piazza che ospita la quasi
totalità dellintreccio: solo alla fine lo spettatore apprende che si tratta di
Plaza San Martin (Buenos Aires). Prima
di quel momento la conosce soltanto attraverso le parole dello scrittore: una «concava
piazza, rivelatrice di anime».
Deprivata
delle coordinate spaziali, la «concava piazza» trascende i confini della
particolarità della storia che ospita, divenendo limen universale in cui si annodano e si snodano non solo le vite di
chi è in scena (non a caso, nessuno è mai menzionato direttamente per nome), ma
potenzialmente quelle di tutti. Ciascun personaggio che attraversa quello spazio,
compreso lo scrittore (difficile parte affidata a un efficace Gioele Dix), è
chiamato a mettere da parte la propria identità-guscio, esponendo le parti di
sé più intime e nascoste e rivelando inaspettati legami con le storie degli
altri. Accade talvolta che il personaggio si spogli letteralmente della sua
“maschera” indossandone una nuova: sotto questo profilo è ben congegnato luso
degli appariscenti costumi di Nicoletta
Ceccolini. Tale meccanismo-base si ripete, con qualche variazione su tema,
dallinizio alla fine dello spettacolo, forse in modo un po prevedibile ma mai
pedante. Limpressione finale che i singoli racconti si incastrino tra loro
come tessere di un puzzle alla maniera di un trito giallo da camera è solo apparente;
in realtà si delinea un quadro complesso che mette insieme una disarmonia di
identità frammentate, distribuite, multiple, esistenti in mondi reali o anche
solo potenziali.
Un momento dello spettacolo © Luca Del Pia
Un
ruolo chiave in questo sistematico processo di disvelamento e accumulazione di
identità è assegnato al rapporto tra gli attori e lo spazio. I personaggi esprimono
il proprio mondo interiore e si relazionano tra loro non solo e non tanto con
le parole, ma soprattutto attraverso le modalità con cui occupano la scena. Se ad
esempio il banchiere entra in punta di piedi e prende posto, contratto,
allangolo opposto della panchina rispetto allo scrittore (usando il proprio
copricapo a mo di separé) per poi
rilassarsi e avvicinarsi a lui man mano che prende confidenza; allopposto lirrequieta
scultrice invade subito lo spazio,
sedendosi in modo scomposto e cambiando continuamente posizione. Questo
aspetto, sicuramente tra quelli di maggior pregio, viene portato allo stremo
nel momento dellincontro tra il banchiere e la moglie psicologa, costruito
attorno a un gioco (forse un po forzato) di avvicinamento-allontanamento che
culmina in una vera e propria danza.
Una
dimensione universale cui contribuisce anche la scenografia minimale, che fa da
pendant allindeterminatezza spaziale:
una panchina sovrastata da accenni di vegetazione e un muro alle sue spalle. Lunico
cambiamento (temporaneo) di scena – ma la funzione dello spazio rimane la
stessa – si ha nella parte centrale del dramma, quando il muro si apre “a
libro” trasformandosi nelle pareti di uno studio di psicologia, la panchina si
divide in due larghe sedie poste luna di fronte allaltra e la vegetazione
scompare. Il rischio di staticità è sistematicamente evitato in primo luogo grazie
al sapiente uso delle luci di Camilla
Piccioni. È lilluminotecnica, più di ogni altro elemento, a disegnare le
singole scene come fossero quadri, vere e proprie impressioni visive capaci di
plasmare, intrecciandosi di volta in volta con le emozioni espresse dai
protagonisti, vigorose atmosfere sempre diverse: dalle tinte noir che fanno da sfondo allincontro
tra lo scrittore e la ragazza scultrice, al delicato cono di luce che
incornicia la composizione armonica dei corpi sottilmente intrecciati dello
scrittore e della donna amata – una bravissima Laura Marinoni – nella scena finale.
Un momento dello spettacolo © Luca Del Pia
Al
netto della superfetazione di alcune dinamiche sceniche, della forse eccessiva
insistenza sul registro comico e di un uso a tratti troppo didascalico delle
musiche, lo spettacolo è ben equilibrato e coglie lambizioso obiettivo di centrare
uno dei possibili perimetri del teatro. In una eternità immaginata dallo
scrittore come unenorme biblioteca contenente tutte le storie di tutti i
tempi, non solo quelle reali, ma anche quelle possibili – riprendendo molto da
vicino alcune riflessioni del primo Jorge
Luis Borges, cui il personaggio è dichiaratamente ispirato –, il compito
del teatro è quello di scrivere sempre nuovi paragrafi, di raccontare sempre
nuove verità.
Come
insegnava nonna Helena al nipote Alexander chino sul suo grembo nel finale di Fanny
och Alexander, ultimo capolavoro di Bergman, «tutto può accadere, tutto è
possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono, limmaginazione – o,
nel nostro caso, il teatro – fila e tesse nuovi disegni».
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