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Tutto ciò che può accadere, da qualche parte, accade

di Marcello Bellia
  Cita a Ciegas
Data di pubblicazione su web 04/05/2018  

Ai lati della panchina di una piazza, all’ombra degli ultimi fiori autunnali di jacaranda, siedono due sconosciuti, uno scrittore cieco e un banchiere. Si scambiano qualche parola di circostanza, discutono del più e del meno e condividono alcune informazioni di superficie sulle loro vite. All’improvviso la loro conversazione prende una piega inaspettata. Lo scrittore inizia a riflettere ad alta voce sulla casualità del loro incontro su quella panchina, sulle innumerevoli possibilità che, al mutare di una semplice variabile, non si sarebbero mai incrociati e le rispettive vite sarebbero state diverse. «Ogni incontro casuale ha la complessità dell’universo», dichiara solennemente lo scrittore, proprio come ogni «incontro mancato è un grande enigma». Il banchiere rimane incantato da queste parole, al punto che inizia ad aprirsi con il misterioso interlocutore. Il racconto che ne seguirà catapulterà il cieco in una intricata ragnatela di destini incrociati, una trama destinata a infittirsi sempre di più con il succedersi di altri incontri “casuali” (una giovane scultrice, una donna enigmatica e, indirettamente, una psicologa)  che lo avvilupperanno fin quasi a soffocarlo.   


Un momento dello spettacolo
© Luca Del Pia

A pochi mesi dalla conclusione del fortunatissimo tour nei maggiori teatri italiani de Il malato immaginario, Andrée Ruth Shammah torna per la terza volta a dirigere Gioele Dix – insieme a Elia Schilton, Roberta Lanave, Sara Bertelà e Laura Marinoni – in Cita a Ciegas, adattamento, inedito per l’Italia, dell’opera di maggior successo del drammaturgo argentino Mario Diament. Se cimentandosi con Molière la regista aveva scelto di rinnovare sistematicamente la “sceneggiatura” di partenza, con l’intento di irrobustire e allo stesso tempo rendere maggiormente fruibile per un pubblico contemporaneo la vena comica originaria, il testo di Diament è invece trattato con un approccio conservativo mediante pochi cambiamenti di rilevo. Uno dei più importanti è la riduzione all’osso dei riferimenti spaziali. Emblematico il caso della piazza che ospita la quasi totalità dell’intreccio: solo alla fine lo spettatore apprende che si tratta di Plaza San Martin (Buenos Aires). Prima di quel momento la conosce soltanto attraverso le parole dello scrittore: una «concava piazza, rivelatrice di anime».   
 
Deprivata delle coordinate spaziali, la «concava piazza» trascende i confini della particolarità della storia che ospita, divenendo limen universale in cui si annodano e si snodano non solo le vite di chi è in scena (non a caso, nessuno è mai menzionato direttamente per nome), ma potenzialmente quelle di tutti. Ciascun personaggio che attraversa quello spazio, compreso lo scrittore (difficile parte affidata a un efficace Gioele Dix), è chiamato a mettere da parte la propria identità-guscio, esponendo le parti di sé più intime e nascoste e rivelando inaspettati legami con le storie degli altri. Accade talvolta che il personaggio si spogli letteralmente della sua “maschera” indossandone una nuova: sotto questo profilo è ben congegnato l’uso degli appariscenti costumi di Nicoletta Ceccolini. Tale meccanismo-base si ripete, con qualche variazione su tema, dall’inizio alla fine dello spettacolo, forse in modo un po’ prevedibile ma mai pedante. L’impressione finale che i singoli racconti si incastrino tra loro come tessere di un puzzle alla maniera di un trito giallo da camera è solo apparente; in realtà si delinea un quadro complesso che mette insieme una disarmonia di identità frammentate, distribuite, multiple, esistenti in mondi reali o anche solo potenziali.


Un momento dello spettacolo
© Luca Del Pia

Un ruolo chiave in questo sistematico processo di disvelamento e accumulazione di identità è assegnato al rapporto tra gli attori e lo spazio. I personaggi esprimono il proprio mondo interiore e si relazionano tra loro non solo e non tanto con le parole, ma soprattutto attraverso le modalità con cui occupano la scena. Se ad esempio il banchiere entra in punta di piedi e prende posto, contratto, all’angolo opposto della panchina rispetto allo scrittore (usando il proprio copricapo a mo’ di separé) per poi rilassarsi e avvicinarsi a lui man mano che prende confidenza; all’opposto l’irrequieta scultrice invade subito lo spazio, sedendosi in modo scomposto e cambiando continuamente posizione. Questo aspetto, sicuramente tra quelli di maggior pregio, viene portato allo stremo nel momento dell’incontro tra il banchiere e la moglie psicologa, costruito attorno a un gioco (forse un po’ forzato) di avvicinamento-allontanamento che culmina in una vera e propria danza.   
 
Una dimensione universale cui contribuisce anche la scenografia minimale, che fa da pendant all’indeterminatezza spaziale: una panchina sovrastata da accenni di vegetazione e un muro alle sue spalle. L’unico cambiamento (temporaneo) di scena – ma la funzione dello spazio rimane la stessa – si ha nella parte centrale del dramma, quando il muro si apre “a libro” trasformandosi nelle pareti di uno studio di psicologia, la panchina si divide in due larghe sedie poste l’una di fronte all’altra e la vegetazione scompare. Il rischio di staticità è sistematicamente evitato in primo luogo grazie al sapiente uso delle luci di Camilla Piccioni. È l’illuminotecnica, più di ogni altro elemento, a disegnare le singole scene come fossero quadri, vere e proprie impressioni visive capaci di plasmare, intrecciandosi di volta in volta con le emozioni espresse dai protagonisti, vigorose atmosfere sempre diverse: dalle tinte noir che fanno da sfondo all’incontro tra lo scrittore e la ragazza scultrice, al delicato cono di luce che incornicia la composizione armonica dei corpi sottilmente intrecciati dello scrittore e della donna amata – una bravissima Laura Marinoni – nella scena finale. 


Un momento dello spettacolo
© Luca Del Pia

Al netto della superfetazione di alcune dinamiche sceniche, della forse eccessiva insistenza sul registro comico e di un uso a tratti troppo didascalico delle musiche, lo spettacolo è ben equilibrato e coglie l’ambizioso obiettivo di centrare uno dei possibili perimetri del teatro. In una eternità immaginata dallo scrittore come un’enorme biblioteca contenente tutte le storie di tutti i tempi, non solo quelle reali, ma anche quelle possibili – riprendendo molto da vicino alcune riflessioni del primo Jorge Luis Borges, cui il personaggio è dichiaratamente ispirato –, il compito del teatro è quello di scrivere sempre nuovi paragrafi, di raccontare sempre nuove verità.   
 
Come insegnava nonna Helena al nipote Alexander chino sul suo grembo nel finale di Fanny och Alexander, ultimo capolavoro di Bergman, «tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono, l’immaginazione – o, nel nostro caso, il teatro – fila e tesse nuovi disegni».


Cita a Ciegas
cast cast & credits
 




© Luca Del Pia
 
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