Agnès Varda, ottantotto anni e una lunga storia davanguardia nel
cinema e nellarte, e JR, trentatreenne
artista francese che “veste” le città di sorprendenti collage fotografici, si incontrano e si mettono in viaggio alla volta
dei piccoli paesi e dei luoghi dimenticati della Francia. Tra aziende di
provincia e cittadine di minatori, capannoni di campagna e il porto di Le
Havre, i due intraprendono un itinerario alternativo
per raccogliere incontri e storie e regalare installazioni di grandi immagini
fotografiche sulle superfici di case, treni merci,
strutture industriali e spazi periferici.
Per definire questo documentario,
tornano efficaci le parole di Raymond
Bellour su Les plages dAgnès,
lavoro precedente della Varda: ci troviamo di fronte a un film «installé sans
cesse» ( Varda ou lart contemporain. Notes sur les plages dAgnès,
«Traffic», 69, 2009, in ID., La querelle
des dispositifs, Parigi, POL, 2012, p. 421). Il cinema di Agnès Varda vive dinstallazioni, come le sue
installazioni vivono di cinema.
La tendenza costante di Visages Villages verso queste forme di
arte visiva e performativa dà vita a unappassionata ricerca di immagini e di racconti,
in cui lo sviluppo della pellicola si produce sui principi dello sguardo, del
gioco, della casualità, della trasmissione e dello scambio. Lo svolgimento
narrativo non è imbrigliato in una struttura lineare, in un intento definito o in
unideologia prestabilita: il documentario vive della fluidità di un viaggio,
composto da racconti, da frammenti, da immagini epifaniche, essendo inestricabilmente
legato al progredire di unamicizia e di altre relazioni umane.
Nel loro progetto, JR e Varda si
sono prefissati di “fare” delle immagini insieme, ma diversamente. Loggetto del documentario è allora lo sguardo: il
processo di creazione delle immagini, le variabili forme con cui queste possono
essere realizzate e mostrate, i modi con cui sintrecciano ai luoghi,
raccontano le storie, evocano i ricordi.
Una scena del film © Agnès Varda-JR-Ciné-Tamaris, Social Animals
Lelemento del ricordo emerge
nelle sue declinazioni individuali e collettive: i due autori hanno fotografato
dei visi, dice Agnès Varda, perché non sprofondino nelloblio, ma anche perché
la memoria del luogo sintrecci con le case, le piazze, le fabbriche, i
capannoni, le strade. Persone che diventano “eroi” e volti che raccontano
storie: il passato che si affaccia sulle proprie tracce. I visi magnificamente
installati sulle superfici dei villaggi sono un omaggio alla gente di questi
luoghi e ai posti “abitati”, partendo dallassunto che solo lincontro e la
relazione, la creazione condivisa e limmaginazione possono svelare lidentità
di un luogo e restituirne la bellezza.
Infine, i ricordi sono quelli
personali di JR e Agnès Varda. In particolare: da una parte, il dolce colloquio
con la nonna dellartista e, dallaltra, la fotografia di Guy Bourdin, scattata dalla Varda decenni prima, ora installata
sopra un bunker in una spiaggia della Normandia. Il ritratto del celebre
fotografo francese si trova proprio dove in passato la regista aveva immortalato
più volte lamico. Ella torna quindi su una spiaggia per parlare del suo
passato. «Si on ouvrait les gens, on
trouverait des paysages. Moi, si on mouvrait, on trouverait des plages» diceva
la regista nell'incipit di Les plages dAgnès. Il risultato
del collage sul bunker è grandioso e la malinconia dellimmagine si
armonizza con le inquadrature delle onde del mare e con quelle intense e
struggenti della spiaggia. Tuttavia il giorno seguente la marea ha già lavato
via linstallazione: rappresentazione effimera di un ricordo fugace, eternato dal
cinema.
Una scena del film © Le pacte
Oltre allaspetto performativo,
dispiegato nel coinvolgimento delle persone incontrate per caso nella creazione
dei grandi manifesti, e allelemento dellinstallazione che domina lestetica
della maggior parte delle sequenze, nel film troviamo “incursioni” in altri
linguaggi. Si pensi alle fotografie della stessa Varda che ritraggono Bourdin o
al fotogramma dellinstallazione museale
Patatutopia. La regista inserisce anche
alcune immagini e un frammento di Les
Fiancés Du Pont Macdonald, suo
cortometraggio con Jean-Luc Godard e
Anna Karina. Si tratta di “indizi” del proprio passato che raccontano del
potere evocativo del viaggio e sono espressione dellintento ludico che pervade
il film. Tramite il cinema il ricordo diviene ancora una volta collettivo: vi troviamo
sequenze di altre pellicole (Cléo de 5 à
7, Un chien andalou) e vere e
proprie citazioni cinematografiche quali liconica corsa al Louvre di Bande à part in unintensa scena di
amicizia. Infine, vediamo Godard che offre una porta chiusa e un amaro
biglietto allamica di lunga data e al suo compagno di viaggio. Unica assenza
in un film di incontri, il grande regista francese diventa leggenda lontana:
narrazione di un ricordo appartenente al contempo a una storia individuale e
alla storia del cinema.
I momenti di condivisione e di divertimento
punteggiano il viaggio: la complicità della coppia che scherza sulla maschera (gli immancabili occhiali da
sole e cappello) indossata da JR o osserva in maniera lieve e giocosa la
vecchiaia di Agnès, il loro entusiasmo, ma anche una struggente nostalgia che
accompagna lapprofondirsi della loro amicizia. Il processo creativo viene
mostrato nelle discussioni, nei cambiamenti didea, nelle divagazioni
dellimmaginazione. Dopo ogni tappa, troviamo una pausa. Le storie narrate
dagli abitanti dei piccoli villaggi della Francia, o dai luoghi stessi, vengono
ricordate dai registi in conversazioni di spalle o da lontano, con dialoghi in voice-over, incorniciati da paesaggi ora
placidi, ora sublimi. Le voci di Agnès Varda e JR accompagnano con grazia tutto
il viaggio, nello stile della regista, insieme allefficace musica composta da Matthieu Chedid.
Una scena del film © Agnès Varda-JR-Ciné-Tamaris, Social Animals
Se la Varda riassume il
significato del film nel «pouvoir de limagination», è un lavoratore della
fabbrica a offrire forse la più mirabile sintesi di questo lavoro. Luomo
sobbalza alla vista dei propri colleghi installati
sui muri del luogo dove lavorano, chiedendosi: «Larte non è fatta forse
per sorprendere la gente?». Una “sorpresa” costante pervasa di entusiasmo e
malinconia che rende questo documentario allo stesso tempo concreto e sublime.
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