Quasi
una primizia per la Scala. Sembra curioso, ma è così: Orphée
et Euridice
di Gluck
non era mai stato rappresentato in questo teatro. Mai rappresentato
in
quanto tale,
bisognerebbe aggiungere, perché alcune sue parti lo sono invece
state e con una frequenza sorprendente in passato. Ma andiamo con
ordine.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano
La fama dellOrfeo precedette Gluck prima del suo trasferimento a Parigi; del resto, essendo costruita su principi francesi, lopera era perfetta per quella città. Nel 1774 Orfeo ed Euridice divenne quindi Orphée et Euridice, un drame-héroïque in tre atti. Cosa era cambiato, a parte la lingua? Orfeo era adesso un tenore e non un castrato contraltista come a Vienna; cerano più balletti che nella versione del 62; cera qui e là nuovo testo per i recitativi (tutti accompagnati, e che Gluck riscrisse quasi interamente); infine cera addirittura unaria di bravura (allitaliana) per il protagonista alla fine del primo atto (Orphée in Francia finì cioè per essere più italiano dellOrfeo viennese). Nel corso del XIX secolo Orfeo/Orphée sarebbe diventato lopera-feticcio del modernismo musicalteatrale, e lo sarebbe diventato in una versione approntata nel 1859 da Berlioz, che metteva insieme parti delle due versioni italiana e francese, affidando di nuovo Orfeo a una voce acuta, stavolta però femminile, un mezzosoprano (la prima interprete di questa versione fu la celebre Pauline Viardot).
Alla
Scala
Orfeo
si rappresentò la prima volta in questa forma ibrida nel 1891; un
po dell
Orphée
francese cera, mescolato però all
Orfeo viennese. La prima del 91 fu un fiasco. Poi, grazie soprattutto
a Toscanini che la ripropose in ben quattro stagioni (1907, 1924,
1925 e 1926, come ci informa lottimo programma di sala), lopera
tornò con una regolarità che oggi sorprende, se si considera quanto
fosse distante dai titoli più frequentati dal pubblico dellepoca.
Lultima ripresa della versione ottocentesca è del 1969. Nella
stagione 1989
Riccardo
Muti
la archivierà per tornare all
Orfeo
viennese del 1762. Dell
Orphée
si persero le tracce: da gluckiano convinto, Muti non pensò di
riprendere anche la versione francese dellopera, che a Milano
approda solo in questi giorni.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano
Orphée
arriva alla Scala in una produzione importata dalla Royal Opera House
di Londra, dove ha debuttato nella stagione 2015-2016.
Lallestimento, affidato al coreografo Hofesh
Shechter
e al regista John
Fulljames,
si basa su una soluzione ingegnosa e inedita: lorchestra è sul
palco, su una piattaforma che sale, scende e sprofonda durante
lazione, permettendo a cantanti, coro e ballerini di agire
davanti, sotto, intorno, dietro a essa. Lapparato scenico è
ridottissimo, limitato a una copertura di pannelli spessi (che
sembrano di rame) in cui sono praticati fori circolari, una sedia,
qualche lampada da minatore dantan
e un piccolo falò antropomorfo (questultimo compare solo nel
primo atto e alla conclusione dellopera). Nientaltro. Anzi, no,
molto altro: il senso del teatro. Per il quale non servono
necessariamente chissà che mezzi. Si dirà che lorchestra su una
piattaforma mobile è una dotazione costosissima che da sola è già
abbastanza. Vero, la mobilità dellorchestra è un elemento
centrale di questa regia. Come lo è lilluminotecnica.
Semplice e
insieme impressionante laccendersi dei raggi di sole filtrati dai
pannelli di (finto) rame nel passaggio dalla porta degli Inferi ai
Campi Elisi, oppure locchio di bue su un Orfeo che implora le
creature infernali. Centrali sono anche la recitazione (curatissima)
degli interpreti e linterazione di costoro con i danzatori. Questi
gli ingredienti con i quali regista e coreografo hanno costruito e
raccontato il dramma di Orfeo e di Euridice con unintensità
commovente e disarmante insieme proprio per la parsimonia di mezzi.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano
Fondamentale
per la riuscita
dellevento è stata la presenza di interpreti capaci di tradurre
uno
spettacolo così rigoroso in modo scenicamente efficace. Innanzitutto
i membri dellHofesh Shechter Company:
bravissimi in uno spettacolo che il loro coreografo-fondatore gli ha
cucito addosso. Non da meno i tre solisti,
Fatma
Said
(LAmour),
Christiane
Karg
(Euridice) e
Juan
Diego Flórez
(Orphée): lopera si regge sulla loro partecipazione e la loro
convinzione drammatica, in special modo degli ultimi due che
recitano come se la musica non ci fosse e non dovessero cantare. E
invece cantano, eccome se cantano.
Di
Flórez non si sa più che scrivere senza ripetersi. Vederlo e
ascoltarlo in scena è una delle gioie che il teatro dopera mi
regala da ventidue anni. Questo suo Gluck lo dimostra ancora una
volta: solo lui può fare di questa parte impossibile un capolavoro
di passione e delicatezza. Splendida anche Christiane Karg come
Euridice: splendida per il fraseggio elegante, la voce piena anche
nei registri centrali (cosa non da tutte le Euridici) e per le citate
capacità attoriali. Ottima anche Fatma Said, nel ruolo breve ma
dalla tessitura ingrata di Amore.
Grande successo per tutti.