Project
Polunin Satori è uno spettacolo in
cui troneggiano la figura carismatica e la sbalorditiva bravura di Sergei
Polunin. Il “bad Boy” della danza che con laddome, le spalle e le mani
tatuate sembra fare proprio il motto dei “poeti maledetti”, epatez le bourgeois. Ma cè qualcosa di
più. E questo qualcosa è la complessa personalità di Sergei, la stessa che
traspare dal film Dancer realizzato
nel 2017 da Steven Cantor tuttora nelle sale cinematografiche. Un documentario
sulla difficile vita di Polunin bambino in Ucraina, sulla danza come occasione
di riscatto sociale e culturale, sullinnato talento che a soli diciannove anni
lo proietta ai vertici del Royal Ballet di Londra.
Un successo esplosivo che però a ventitré anni lo
porta a sentire una profonda insofferenza per quella danza tirannica,
soffocante, costrittiva che gli ha dato tanto, inaspettatamente troppo e forse
troppo presto, e che ora vuole la sua “contropartita” imprigionandolo in un
ruolo ben definito. Così Sergei si ribella, lascia nel 2012 il posto “sicuro”
di primo ballerino al Royal Ballet, assume atteggiamenti controcorrente e
anticonformistici e fa della sua nequitia
una bandiera. Diventa icona di sé stesso ampliando i suoi orizzonti con la
partecipazione a servizi fotografici e a video, fra cui quello cliccatissimo di
David La Chapelle del 2014 su la canzone Take me a Church di Hozier. Lanno scorso prende parte a Assassinio sullOrient Express di Kenneth
Branagh: unesperienza cinematografica che lo affascina e che continua in
questo 2018 nel thriller Red Sparrow di
Francis Laurence, in The White
Crow di Ralph Fiennes e in The
Nutcracker and the Four Realms di Lasse Hallström.
Un momento dello spettacolo © Roberto Ricci
Un “iperattivismo” che contrariamente a
quanto lui stesso poteva, o si poteva pensare, non lo separa dalla danza. Anzi
fa rinascere un legame più solido e maturo con lavventura di Project Polunin. Un progetto ambizioso
che ha lobiettivo di realizzare inedite coreografie allinsegna della multi e della
pluridisciplinarietà mediante la collaborazione di ballerini, musicisti,
coreografi e artisti provenienti da ambiti e percorsi diversi.
Il primo frutto di questa sinergia è il trittico Satori, che ha debuttato a inizio dicembre 2017 al Coliseum di Londra ed è
arrivato in Italia in prima nazionale al Teatro Regio di Parma, accolto da un
tripudio di onori e consensi. Satori, termine buddista che significa “risveglio
spirituale” o “illuminazione” scelto come titolo della serata e dellultimo
pezzo firmato da Polunin, la dice lunga su questo fabulous dancer.
Un volitivo e geniale ucraino che ha trovato
sostenitori e seguaci in ballerini che condividono lo spirito del progetto, a
cominciare dalla splendida Natalia Osipova, prima ballerina del Royal
Ballet e sua compagna, proseguendo con il fior fiore della danza russa e serba:
un manipolo di motivati sodali che rispondono al nome di Igor Tsvirko e Anastasia
Goryacheva, primi solisti del Balletto del Teatro Bolšoj di Mosca. I due
sono affiancati da altri bolsojniani doc: i solisti Egor Khromushin e Evgenia
Savarskaya, la prima ballerina Nina Kaptsova e colleghi provenienti da altri teatri moscoviti e serbi quali Elena
Solomianko e Alexei Lyubimov (solisti del Balletto del Teatro
Stanislavskij), Polina Podolskaya (solista del Balletto del Cremlino), Liliana
Velimirov (solista del Teatro Nazionale di Belgrado), senza dimenticare il
giovanissimo Dorde Kalenic, allievo della Fondazione Nazionale della
Danza della capitale serba.
Un momento dello spettacolo © Roberto Ricci
Se da un lato Satori nasce su input di Sergei, dallaltro riflette il
suo accademismo nel recuperare la grande tradizione coreutica russa e il
bisogno di una rinascita umana ed esistenziale al di là del ribellismo, dello
straordinario talento, della mostruosa tecnica, dello scegliere larte come
espressione di sé. Il primo pezzo è First
Solo, una coreografia
di Andrey Kaydanovskiy su musiche di Alèmu Aga e Agustin Lara
e luci basse di Christian Kass. Sergei, a torso nudo con indosso i
pantaloni di Martin Leuthold, “duetta” con le poesie del sovietico Alexander
Galich recitate da una graffiante voce di sottofondo. Un melologo in danza
che vede Polunin, sempre di spalle al pubblico, mostrare la loquacità
espressiva di una danza contemporanea, fisica, materica, ma intrisa di classicismo
nellallongé dei passaggi e nelleleganza
con cui asseconda le parole di Galich.
Lomaggio alla
Russia prosegue con Sckrjabiniana, una
coreografia di Kasyan Goleizovsky su musica di Alexander Skrjabin,
con la regia e le luci soffuse di Roman Mikheenkov. Si tratta di una
delle poche creazioni non rimaneggiate di Goleizovskyl, fulgido esempio di
quello che sarà il proverbiale neoclassicismo di Balanchine. Attivo a
Mosca tra gli anni Venti e Sessanta del Novecento, Goleizovsky fu allavanguardia per il suo modo innovativo
di liberare il corpo e il vocabolario accademico dalle rigide costrizioni
assiali della danse décole. Anche
solo per aver rilanciato Sckrjabiniana
– rappresentata al Bolšoj nel 1962 e ricostruita per Satori da Ksenia Oyventa – dobbiamo essere grati a Polunin,
non dimentico delle radici di quel rinnovamento stilistico che va sotto il nome
di neoclassicismo (prima) e di postclassicismo (poi).
Sckrjabiniana
è un fluire di lirici soli, passi a
due e scene corali in cui si avvicendano Polunin, Natalia Osipova, Igor
Tsvirko, Elena Solomianko, Egor Khromushin, Polina Podolskaya, Evgenia
Savarskaya, Alexei Lyubimov, Nina Kaptsova e Anastasia Goryacheva. Accarezzati
dai setosi costumi di Sofia Filatova, i ballerini tessono una fitta trama
di stati danimo differenti con un linguaggio adamantino, morbido, brillante,
raffinato, che punta alla cantabilità del dettato coreografico e coreutico
richiamando tanta parte della “poesia di danza” del secondo Novecento. Impressi
rimangono tutti i quadri danzati e tutti i formidabili protagonisti a
cominciare dai due protagonisti, da soli o in coppia, lui per lincontenibile
vitalismo con cui fagocita lo spazio scenico, lei per lelegante leggerezza con
cui si impone sulla scena. Una “comunione” fisica e spirituale che rende
giustizia allo stile innovativo di Goleizovsky e regala momenti di grande danza
passata, presente e futura. Vedere Polunin e Osipova volteggiare sui passi a
due di Sckrjabiniana richiama alla
mente il liricissimo pas de deux di Spartacus, balletto cult del repertorio
bolsojniano firmato da Grigorovich nel 1968 su musica di Khatchaturian
non immune dagli stilemi di Sckrjabiniana
e dalla poetica neoclassica di Goleizovsky. Un grazie dunque a Polunin per
questa dotta operazione di “archeologia” coreografica, che fa apprezzare,
seppur con i dovuti distinguo, anche il suo Satori.
Un momento dello spettacolo © Roberto Ricci
Va precisato che Polunin non è un
coreografo, o almeno non lo è ancora. Conta anzitutto lurgenza biografico-artistica
di mettere in danza la propria vita per esorcizzare fantasmi e ossessioni,
riannodare i fili di un passato familiare non facile e prendere le distanze
dagli accecanti bagliori di un successo prematuro.
Su
musica di Lorenz Dangel, con la
regia di Gabriel Marcel Del Vecchio, scene bucolico-tecnologiche di David
La Chapelle e costumi di Angelina Atlagic, Polunin si relaziona con
una proiezione di sé stesso bambino, interpretato dal sorprendente e bravissimo
Kalenic, alle prese con i salti indiavolati e i poderosi manèges delloriginale. Virtuosismi
stratosferici puntualmente esaltati dalle luci di Christian Kass e dai
video di Design Zsolt Balogh.
Tramite Dorde, Polunin recupera il rapporto con la
madre (unintensa Liliana Velimirov) e mostra il bisogno di affetto di un
ragazzino anticipando quello delladulto in lotta con i suoi demoni. Due figure
in nero lo circondano, Alexey Lyubimov e Igor Tsvirko, fugate dalla donna in
rosso, una dolcissima e comprensiva Osipova, simbolo dellamore salvifico.
A Satori mancherà forse il piglio autoriale, ma quello che non difetta a Sergei è il coraggio di raccontare sé stesso, il "bad Boy" innamorato della danza, di Natalia e della vita.
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