Fin dal titolo
dellultimo lavoro della compagnia di Sollicciano appare chiaro
lintento di identificare la mitica epopea delleroe omerico con
quella, contemporanea, del migrante. Più precisamente, il viaggio
che in questa versione dellOdissea si vuole rappresentare è
quello che dalle sponde dellAfrica settentrionale conduce fino
alle coste italiane. Come si legge nel programma di sala, «il 70%
della popolazione detenuta a Sollicciano è costituita da persone di
origine nord-africana». Da qui lidea di «mettere in scena uno
spettacolo che raccontasse il viaggio e il dramma di chi oggi
attraversa il Mediterraneo».
Il
materiale drammaturgico di cui la regista Elisa
Taddei si serve è, come sua
consuetudine, vario e composito. Alcuni dei più
celebri passi dellOdissea
– opportunamente rielaborati – costituiscono lossatura della
rappresentazione: allinterno di questa struttura si alternano
brani di letteratura contemporanea, canzoni, performances
di rap
e breakdance,
coreografie e, quel che è più interessante, il racconto
delle storie personali dei detenuti-attori (una formula,
questultima, già efficacemente sperimentata
nel precedente Dal carcere).
Leffetto complessivo è quello di un coinvolgente cabaret:
le peripezie di Ulisse «immigrato clandestino» vengono narrate per
quadri brevi e autonomi, ognuno dei quali segna una diversa tappa del
viaggio. Ne è protagonista un Odisseo contemporaneo diviso fra la
necessità di allontanarsi da casa e il desiderio di farvi ritorno.
Linizio
dello spettacolo segna chiaramente la dicotomia vissuta
dalleroe-migrante: la fine della
guerra di Troia innesca simbolicamente la fuga da più attuali
conflitti, resa con lirruzione dal
fondo della platea di un gruppo di uomini armati. Leffetto di
inquietudine e disorientamento prodotto sul pubblico si stempera
nella divertente scena del consesso degli dei, risolta con uno
Zeus-showman affiancato da due danzanti drag queen,
abbigliate con i colori della bandiera
italiana. E proprio un gigantesco tricolore domina la scena, a
simboleggiare la prima meta del viaggio di Ulisse. Il migrante è
fuggito da situazioni di conflitto e violenza e ha finalmente
raggiunto un luogo relativamente sicuro, ma adesso vuole tornare a
casa. Sulla sinistra del palcoscenico, leggermente in disparte, una
Penelope in abiti tradizionali africani cuce in tacita attesa.
Un momento dello spettacolo
© Enrico Gallina
La
bandiera lascia il posto a uno sfondo completamente nero su cui si
staglieranno, con effetto quasi cinematografico, le diverse fasi del
viaggio verso le coste italiane e di un soggiorno tuttaltro che
agevole. Proprio come il re di Itaca di fronte ai Feaci, il
protagonista di questa moderna Odissea
racconta in prima persona al pubblico la sua tormentosa traversata
del Mediterraneo: «Mi chiamo Hassan e sono Ulisse». Il monologo si
trasforma presto in teatro in azione: il naufragio e il salvataggio
di un gruppo di migranti si materializzano così sul palcoscenico con
efficace realismo.
Questo coinvolgente
incipit corrisponde, per sommi capi, alla struttura del libro
I e del libro VIII del poema omerico, dove si dipana il “racconto
nel racconto”. Opportunamente tagliata la Telemachia, cui fa
cenno la simbolica e costante presenza di Penelope sullo sfondo. Si
assiste quindi a un susseguirsi di quadri che, se da un lato evocano
alcuni degli episodi salienti dellOdissea, dallaltro
fanno metaforicamente riferimento agli ostacoli – sociali,
politici, culturali – che il migrante dovrà affrontare una volta
giunto in Italia.
Così
il terribile Ciclope figlio di Poseidone diventa il simbolo del
potere mediatico delle immagini: su un telo trasparente, che lascia
visibile dietro di sé il gruppo di “immigrati clandestini”
costretti a una visione forzata, vengono proiettate brevi clips
di programmi televisivi, in un inquietante
carosello ironicamente battezzato «Polifemo TV». Durante il
successivo monologo sui pericoli e le illusioni del web,
un grande occhio proiettato sul telo domina la scena. Probabile
omaggio, questultimo, allocchio
del Big Brother di Orwell
di cui si evoca la pungente riflessione sullessere guardati a
vista, centrale nella televisione e nei nuovi media.
Significativo
lintervento di Eolo che nel suo monologo, scandito
dallemblematico refrain
perbenista «Io non sono razzista, ma…», condensa i capisaldi di
unaccoglienza “a metà”, resa inefficace da pregiudizi e
luoghi comuni. Al posto dellotre contenente i venti avversi alla
navigazione, il dio consegna a Ulisse una valigetta, simbolo dello
status
di cittadino o, forse, dei più elementari diritti umani. Come gli
incauti compagni delleroe, anche i migranti aprono loggetto
proibito: nel potente quadro successivo li vediamo cadere a uno a uno
mentre marciano dietro a uno striscione volutamente bianco e privo di
slogan.
Qualsiasi tipo di rivendicazione sociale – dallesigenza di
strutture adeguate ad accogliere i rifugiati fino alla richiesta di
dignitose condizioni di vita nel Paese di arrivo – è destinata a
restare inascoltata.
Un momento dello spettacolo
© Enrico Gallina
La
maga Circe è la regina di una discoteca dove uomini trasformati in
bestie si scatenano in danze selvagge e dove le sostanze stupefacenti
sono un inebriante quanto fugace e vano antidoto alla nostalgia.
Tiresia appare in un regno dei morti più concreto che mai – il mar
Mediterraneo, le cui vittime vengono enumerate durante un toccante
corteo funebre – e predice a Ulisse un futuro di triste
reificazione: limmigrato “busta-paga”, accettato solo in
quanto utile manodopera. Le Sirene sono due imbonitori biancovestiti
che promettono facili guadagni e una ancor più facile e indolore
“integrazione”.
Ulisse «immigrato
clandestino», a differenza delleroe omerico, non tornerà a casa:
più realisticamente, sarà la consorte a raggiungerlo. Penelope, che
a metà spettacolo aveva dato sfogo ai diversi stati danimo
dellattesa (a lei è affidato un significativo monologo tratto
dalle Beatrici di Stefano Benni), giunge dal fondo
della platea trascinando una pesante valigia rossa. Il bagaglio al
centro del palcoscenico ormai vuoto è limmagine su cui si
abbassano le luci: un finale aperto su un futuro quanto mai incerto,
che lascia intravedere ancora nuovi viaggi. Come lUlisse di Dante,
anche leroe-migrante è destinato a non trovare pace.
LOdissea della
compagnia di Sollicciano è uno spettacolo corale. Le capacità di
ogni attore e di ogni performer vengono efficacemente
valorizzate, come già in altri lavori del gruppo coordinato
dallassociazione Murmuris. Vengono inoltre sfruttate le diverse
competenze linguistiche: se ai componenti italiani del cast sono
generalmente affidati i ruoli delle divinità e delle altre figure in
cui il protagonista si imbatte – ruoli spesso caratterizzati da
lunghi monologhi –, la parte di Ulisse è assegnata al gruppo di
attori nordafricani. Il personaggio, cui gli interpreti danno vita a
volte individualmente, a volte collettivamente, talvolta si esprime
in arabo, accentuando così la sua condizione di straniero e di
“diverso”. Ciò induce
negli spettatori un senso di straniamento e al tempo stesso di
identificazione, perché li costringe a sperimentare le difficoltà
linguistiche fatalmente incontrate dai migranti.
Proprio la scelta di
stringere il campo sui libri centrali dellOdissea valorizza
lidea di comunicazione: la voce narrante è quella di Ulisse, che
trova nel popolo dei Feaci unumanità finalmente pronta
allascolto. «La storia di Odisseo», si legge nel programma di
sala, «contiene in sé parole di guerra, di viaggio, di ritorno
sperato, di accoglienza, di straniere genti ascoltate e ospitate».
Il richiamo ai più attuali e profondi contenuti del grande classico
è oggi particolarmente urgente: lo spettacolo portato in scena dalla
compagnia di Sollicciano se ne fa veicolo senza retorica (le si può
imputare, al più, un eccesso di didascalismo in alcuni punti), ma
con la sferzante ironia e la coinvolgente verve comunicativa
che la contraddistingue.