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La genetica della danza

di Gabriella Gori
  Autobiography
Data di pubblicazione su web 19/11/2017  

Sono esplosivi i corpi della Company Wayne McGregor, come esplosivo è il genio del suo fondatore e mentore Wayne McGregor. Un coreografo che stupisce sempre per il modo di trattare “la cosa danza” e di sondare la capacità di un corpo coreutico di restituire il pensiero della mente. Questi i principi alla base di Autobiography, il suo nuovo lavoro nato dalla collaborazione con gli scienziati del Wellcome Trust Sanger Institute per indagare il rapporto tra danza e genetica. Uno spettacolo che ha debuttato l’ottobre scorso al Sadler’s Wells di Londra e ora è ospite in alcuni teatri italiani fra cui il Comunale di Ferrara.

Il dancemaker inglese, partendo dallo studio dell’intera sequenza del suo genoma, lo ha “riprodotto” tramite i dieci danzatori della compagnia in una sorta di autobiografia che prevede ventitre sequenze corrispondenti alle ventitre coppie di cromosomi che costituiscono la “libreria” dell’informazione ereditaria di ogni genoma umano. Ventitre “volumi” di una vita che vengono “restituiti” nelle mise en danse con un procedimento sistematico di calcolo – l’algoritmo –: si parte dal codice genetico di McGregor ma poi è il computer a stabilire quale “volume” della “libreria” mcgregoriana verrà sfogliato, da chi e in quale ordine.



Un momento dello spettacolo
© Richard Davies

Una creazione che per sua stessa natura non si ripete mai: come il DNA, combinando le quattro proteine base A-T-C-G, realizza diverse, sorprendenti combinazioni, così Autobiography ogni volta reinventa la coreografia fondata sui tre principi base del genoma: “replicazione”, “variazione”, “mutazione”. Un’operazione squisitamente cerebrale che può ricordare la chance operations di Merce Cunningham e John Cage; ma, mentre lì era il Caso – sollecitato dal tiro dei dadi – a decidere l’assemblaggio e la successione delle sequenze della coreografia, in Autobiography l’abbinamento nasce dalla manipolazione dei dati del genoma da parte dell’intelligenza artificiale del PC.     

L’assetto coreografico è dunque sempre in divenire ma non lo sono gli elementi fissi che sorreggono la messa in scena. In primis gli straordinari componenti della Company e, a seguire, la musica di Jlin, che spazia dalle sonorità elettroniche a quelle orientali, dalle percussioni a “respiri” barocchi; la scenografia metallica di Ben Cullen Williams, che presenta un reticolato appuntito da piccole piramidi; il cangiante e chiaroscurale disegno luci di Lucy Carter, che arriva a inondare platea e palchi di raggi laser; i setosi costumi bianchi e neri di Aitor Throup, che assecondano i corpi dei ballerini; e infine la drammaturgia di Uzma Hammed che rilega le “pagine” dei “volumi” genomici.



Un momento dello spettacolo
© Andrej Uspenski

Dunque, protagonista di questa applaudita indagine genetica è la danza di McGregor. Una danza vera, definita “pura”, che per l’epoca in cui nasce è contemporanea ma per il genoma che la caratterizza è “mcgregoriana” in ogni sua parte e riflette il modus creandi dell’artista britannico. Un fare danza in cui è possibile ravvisare la lezione di maestri del postmoderno come Cunningham e del postclassico come Forsythe; una lectio rivisitata e rivissuta dall’inconfondibile piglio “alla McGregor”, che travolge e stravolge i dettami orchestici a suo piacimento, compreso il famigerato classico.

In Autobiography la Company balla, anzi “straballa”, in un intreccio rocambolesco e parossistico di assoli, duetti, terzetti, quartetti, sestetti, ensembles che, come nel reticolato genomico, si intersecano, si riproducono e si trasformano, generando differenti moduli espressivi. Moduli in cui i corpi esplodono assecondati dalla musica, accompagnati dalle proiezioni scenografiche, esaltatati dalle luci e accarezzati dai costumi.

La sensazione che si prova di fronte allo spettacolo, tutto sommato breve con i suoi ottanta minuti senza intervallo, è quella di non avere requie a causa dell’incessante riprodursi delle sequenze, che mette a dura prova la resistenza e il fiato dei ballerini e trascina lo spettatore in un vortice di emozioni visive che solo la danza-danza riesce a regalare. 



Un momento dello spettacolo
© Richard Davies

Non passa inosservato il solo iniziale per l’implosiva potenza con cui il danzatore a torso nudo tiene la scena o il solo finale per la conturbante fisicità con cui la ballerina, con tanto di fluente coda di cavallo bionda, chiude questa autobiografia. Ma è la parte centrale della coreografia che abbaglia con l’esasperazione della “replicazione, variazione, mutazione” di estremi decalés e cambrés, di eccentrici off balance, di velocissimi brisés volés, di continui rebounds. Una “danzatletica” di grande respiro che evita l’acrobatismo ginnico proprio per la qualità e lo stile del dettato danzato e danzante tipico di McGregor e di altri suoi pezzi, fra cui Entity, Erazor, Far e Atomos.

Coreografo residente al Royal Ballet, artista ospite di insigni corpi di ballo come il Balletto dell’Opera di Parigi, il New York City Ballet, il Bolshoi, il San Francisco Ballet e autore “certificato” da premi e riconoscimenti – non ultimo l’“Oliver Award” nel 2016 per il suo Woolf Works –, il coreografo britannico è atteso nella primavera del 2018 a New York in AFTERITE, la sua prima creazione per l’American Ballet Theatre, e a Londra con il Royal Ballet, in un programma dedicato ai cento anni dalla nascita di Bernstein. Una celebrazione che lo vedrà misurarsi, come già successo nel 2012, con altri due nomi di punta della danza inglese, Christopher Wheeldon e Liam Scarlett. Ma McGregor non teme confronti e sarebbe bello poterlo vedere esplodere, se non nei “lontani” States, almeno nella più vicina Londra. 




Autobiography
cast cast & credits
 



Un momento dello spettacolo di danza visto al teatro Comunale di Ferrara il 5 novembre scorso
© Richard Davies

 
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