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Bersaglio mancato

di Vincenzo Borghetti
  Der Freischütz
Data di pubblicazione su web 10/11/2017  

Così così. Questa è l’impressione dopo aver visto il Freischütz della Scala, uno spettacolo che lascia molto perplessi. Che cosa non ha funzionato? I problemi, sia detto senza giri di parole, sono tutti nell’allestimento e nella regia, e sono resi ancor più evidenti dal confronto inevitabile con l’opera immediatamente precedente in cartellone, lo splendido Tamerlano di Davide Livermore. Ebbene, stavolta l’incanto non si è ripetuto.

In questo Freischütz Matthias Hartmann (regia) non ha optato per la trasposizione della vicenda (come invece avveniva nel Tamerlano), bensì per un realismo “traumatizzato”, per così dire. In scena si vedono le cupe foreste della Selva boema, ma le montagne sullo sfondo e gli edifici sono affidati a sagome di tubi luminosi al neon (scene di Raimund Orfeo Voigt); i personaggi vestono panni dall’aspetto genericamente alpino, di cui sono modernissime reinvenzioni (creazioni degli stilisti Susanne Bisovsky e Josef Gerger, con la collaborazione di Malte Lübben).



Un momento dello spettacolo 
© Marco Brescia e Rudy Amisano

Capiamo subito che non siamo «poco dopo la guerra dei Trent’anni» come prescrive il libretto, ma in un passato da fiaba filtrato dall’estetica contemporanea. Tuttavia questa convivenza tra modernità e tradizione non diventa la o una chiave interpretativa dell’opera: si assiste infatti a uno spettacolo convenzionale, in cui invece dei fondali dipinti e delle casette di cartapesta ci sono silhouette disegnate da neon bianchi. Intendiamoci, nulla di male in queste interferenze. Solo si vorrebbe che ci si facesse carico della parte “convenzionale” come si conviene, seguendo con cura la recitazione e i movimenti dei cantanti e del coro (e i Meistersinger von Nürnberg di Harry Kupfer della primavera scorsa ci hanno mostrato come sia possibile farlo, vedi recensione LINK). Oppure che, al contrario, si facesse un passo deciso per l’opzione modernista. Invece non c’è nessuna sterzata né da una parte né dall’altra, col risultato che lo spettacolo resta sospeso in una via di mezzo irrisolta e quindi, alla fine, poco interessante. 

Di tutt’altro tenore, invece, la parte musicale. A cominciare dalla direzione di Myung-Whun Chung. Che qui le cose funzionino a meraviglia è chiaro già dall’inizio dell’ouvertüre. Basta ascoltare come Chung fa suonare la prima nota, il lungo do tenuto da archi e legni, pianissimo con forcella di crescendo, per entrare nell’atmosfera da fiaba gotica dell’opera. Il direttore ruba subito la scena al regista: è dall’orchestra che emana la magia di sonorità tornite, di colori, tempi e dinamiche cangianti, che creano, loro sì, la regia dello spettacolo, e lo fanno a tal punto che guardare l’azione sul palco è alla fine superfluo. La scrittura di Weber, come è noto, in quest’opera è un po’ la fiera del «fàmolo strano», e spesso incoraggia direzioni discontinue ed eccessive. Ecco, niente di tutto ciò nella direzione di Chung. Che accompagna il canto, crea suggestioni, commuove, spaventa ma con il passo sereno di chi sa prendersi i tempi giusti per raccontare (in musica) una storia.



Un momento dello spettacolo 
© Marco Brescia e Rudy Amisano

Molto bene il cast vocale, sebbene penalizzato da uno spettacolo che non ne mette in evidenza le potenzialità sceniche. Ciò è vero soprattutto per i due ruoli femminili, Agathe (Julia Kleiter) e Ännchen (Eva Liebau). La prima abbandonata a sé stessa da una regia disattenta alla performance attoriale; la seconda costretta invece a una recitazione caricata, e sfavorita inoltre da costumi demenziali (specie quello del secondo atto). Per fortuna arrivano in soccorso le capacità musicali delle due interpreti, entrambe perfette nei rispettivi ruoli della fanciulla romantica seria e di quella faceta. Kleiter, ancora compassata nell’aria del secondo atto (Leise, leise, fromme Weise), emerge poi nella cavatina del terzo (Und ob die Wolke sich verhülle), cantata con estrema eleganza di fraseggi, padronanza delle tessiture, e con grande omogeneità timbrica nei registri. Liebau dà spessore drammatico al suo personaggio fin dall’inizio, recitando con una voce ricca di inflessioni e duttile nei fraseggi.

Degli interpreti maschili il migliore è sicuramente Günther Groissböck (Kaspar). Voce e corpo prestanti e du rôle, Groissböck evita gli effetti grossolani del cattivo, che sono spesso caratteristici di chi interpreta il ruolo. Sorprendente il Lied del primo atto (Hier im ird’schen Jammertal) per la varietà delle sfumature, oltre che per la sicurezza con cui il cantante affronta le insidiose puntature all’acuto alla fine delle strofe; impressionante, davvero, la sua scena della Gola del lupo del secondo atto, dove riesce a dominare un brano irto di difficoltà vocali che alterna canto, recitazione e melologo.



Un momento dello spettacolo 
© Marco Brescia e Rudy Amisano

Meno a fuoco il Max di Michael König. König esegue tutto correttamente, e non è poco per una parte difficile come questa, ma il personaggio resta sullo sfondo. Bene poi tutti i comprimari, l’Ottokar di Michael Kraus, il Kuno di Frank van Hove, l’eremita di Stephen Milling, il Kilian di Till von Orlowsky, e le quattro damigelle Celine Mellon, Sara Rossini, Anna-Doris Capitelli e Mareike Janowski, allieve dell’Accademia di Perfezionamento del teatro alla Scala.




Der Freischütz
Opera romantica in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama



Un momento dello spettacolo visto il
 2 novembre scorso 
al Teatro alla Scala 
di Milano


 
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