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L'apocalisse burlata dal gioco del teatro

di Gianni Poli
  Fine dell'Europa
Data di pubblicazione su web 03/11/2017  

Il risultato di un laboratorio promosso dall’École des Maîtres e condotto da Rafael Spregelburd nel 2012 è ora in scena, con il titolo Fine dell’Europa, grazie alla collaborazione di quattro teatri europei. Il drammaturgo e regista d’origine argentina partiva da nuclei tematici attinenti al concetto di fine, applicato ad alcuni aspetti (o valori) propri del Vecchio Continente. Una specie di canovaccio per libere esercitazioni rappresentative. Nel tempo, ha preso forma il progetto d’uno spettacolo complesso al quale, dopo alcune repliche di rodaggio a Caen (Centre Dramatique National de Normandie), si assiste al Teatro Duse di Genova.

Nel programma di sala si avverte circa l’autonomia degli episodi componenti l’insieme, due parti di quattro «atti» ciascuna. L’inquadramento prevede uno schema di teatro-nel-teatro, nel quale una compagnia di attori creativi ed entusiasti trae spunti d’ispirazione da un mondo attraversato da paure diffuse. Una troupe multilingue e un regista argentino si propongono di lavorare alla creazione di piccole cellule teatrali, dei «bonsai narrativi» attorno all’eterno soggetto della fine. Immaginano che, avendo realizzato una fiction a puntate intitolata appunto L’Europa, essa sia giunta a esaurimento e che un ipotetico Dio voglia rianimarla per proseguirla con l’aiuto dei suoi angeli. Ma le buone intenzioni degli extra-terrestri urtano contro un gruppo di malevoli interpreti, sfiduciati, terrorizzati e arrabbiati. Essi si dedicano quindi ad analizzare le nozioni attualizzate della fine (dalla Bibbia al neoliberismo) e a dimostrare come i discorsi apocalittici, generati dal potere, sfruttino il terrore per indurre le persone e la società a dipendere da quelle idee. Smontare quei miti e capirne il congegno sarebbe l’auspicio ulteriore di questo spettacolo paradossalmente ludico e moraleggiante. Fin dall’incipit si avvicendano strani convegni di personaggi di diverse epoche storiche, commistioni di generi e linguaggi, causa di sconcerto immediato, anche per la traduzione in lingua francese a sua volta doppiata in italiano, nei sovratitoli e nelle battute. 

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Tristan-Jeanne Valès

Quanto avviene in scena non corrisponde all’enunciato, poiché in apertura, nella Fine dei confini, si assiste alla performance d’una cantante (Aude Ruyter, dal recitativo nitido e ben conforme ai modelli) che interpreta la canzone Jenny dei pirati, dall’Opera da tre soldi, mentre una massaia (o studentessa?) traduce per un interlocutore al cellulare. La cantante  è costretta a spiegare parola per parola la canzone che, pure interpretata con passione politica adeguata, una volta che è pedantemente tradotta risulta rumore, frastuono nel quale i pirati diventano terroristi. Chiude la scena l’esposizione d’una mappa dei Paesi Bassi, scusa per svelare le complicazioni che le tre lingue lì vigenti causano agli abitanti del territorio. 

Sotto il titolo La fine dell’arte, si partecipa al confronto d’una coppia di docenti di storia dell’arte (una belga e un francese) che dissertano, con compiaciuto fervore didattico ed estetico, il caso d’un restauro che ha fatto scalpore: l’Ecce Homo di Elias G. Martinez a opera di Cecilia Giménez. In un locale studentesco i due interlocutori debbono inoltre rispondere a una laureanda che la professoressa ha bocciato.

Vivi ed efficaci gli interpreti, nella verità quasi documentaria della partecipazione personale. In «una Corte italiana del XXI secolo», precisa Spregelburd, si svolge l’esemplificazione della Fine della nobiltà. La parata dei personaggi partecipanti alla festa in villa, organizzata dai nobili, illustra l’ultimo, illusorio tentativo del potere di salvare i propri attributi simbolici. In un mondo fatto di apparenze, estraneo ai bisogni e al lavoro, alimentato dal denaro, la festa si fa triste, con artisti senz’arteUn mago che dimentica i suoi trucchi; uno studente di paleontologia trasformista travestito; un’imitazione scadente di Julio Iglesias rendono patetico e volgare, per scurrilità goliardiche, il finale sciolto in fuga sotto un temporale.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Tristan-Jeanne Valès

La recitazione sfoggia registri di calibrata parodia nel Conte di Adrien Melin in tenuta da tennis e nelle allusioni decadenti e nel sentimentalismo corrosivo della Contessa, una Deniz Özdoğan fascinosa fra ingenuità e malizia. La Fine della Storia mostra una compagnia teatrale durante le prove, quando lo sforzo d’interpretazione causa equivoci e gags. Il misto di finzione e di realtà ricalca stilemi noti e ovvi: una cantante prolunga il suo canto barocco, accanto a improvvisazioni e ricordi; una citazione cinematografica; l’accensione d’una sigaretta quale evento decisivo nella vicenda, che non nobilita la prestazione dei guitti, illusi di potere riallestire una pièce già recitata. Il campionario s’allarga, dal romanzo russo alla pantomima; dal repertorio storico a un passo di danza celebre, copiato da Pina Bausch. Prosegue la metafora forzata e abusata (l’Europa come la compagnia teatrale?). Un incendio e una crisi finanziaria costringono l’edificio alla chiusura, finché i fantasmi vi restano inquilini fino alla sua riapertura, con diversa destinazione, nel 2036. 

Nella seconda parte, in una clinica svizzera sul lago, una donna infortunata al ginocchio si vede diagnosticare un cancro (a causa di uno scambio di referti) e si sente proporre, in luogo delle cure, un programma psicologico di accompagnamento alla morte basato su una gratificante «carta del sorriso». Per questa Fine della sanità, la recitazione realistica ottiene un rafforzamento del clima dell’assurdo. E la Fine della realtà è addebitata all’avvento del virtuale. Secondo l’autore, «una conferenza tradotta simultaneamente in più lingue, evidenzia la scomparsa del reale […] sostituito da schermi tattili e da voci ricevute in cuffia e ritrasmesse […]. Il virtuale senza finalità estetiche è puro riflesso del nostro passaggio sulla terra».

Diversamente avviene nella drammaturgia di La fine della famiglia, svolta in un dialogo fra riconoscibili personaggi comuni. In seguito alla morte della madre, le tre sorelle eredi si riuniscono e litigano, per disfarsi della casa e dei ricordi ad essa legati. Bella occasione per chiarire come i legami di sangue agiscano su sentimenti e comportamenti; per domandarsi se la famiglia sia la forma migliore per «organizzare i corpi nello spazio». Recitazione di pregevole reattività passionale nelle tre protagoniste, Sophie JaskulskiValentine Gérard ed Émilie Maquest.  

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Tristan-Jeanne Valès

Sul set d’una fiction televisiva s’avvia l’ultimo episodio, il più frammentato e convulso, che richiama il tracciato progettuale. Il soggetto pare la ripresa d’un film a luci rosse, disponibile in due versioni, quella americana e quella europea. Due pornostars (quasi identiche per mise e trucco) si alternano nel ruolo, attorniate da servi zelanti e da partners virilmente arroganti. Nei successivi «si gira!» si passa alla produzione d’un grossolano thriller internazionale. Finalmente le didascalie e gli attori comunicano che Europa è il titolo d’una serie televisiva decrepita, una coproduzione di diversi paesi che si trascina a fatica – per carenza di idee, stanchezza degli interpreti, mancanza di fondi – prima di essere soppressa. Una reazione improvvisa e inopinata, immotivata, provoca allora l’intervento di un Dio (letteralmente deus ex machina) che per proseguire la lavorazione invia i suoi angeli a svolgere i compiti di assistenti, truccatori e tecnici. Finché la pantomima caotica entra in un incubo, sconvolto da musica e rumori in cacofonico crescendo. Le didascalie informano: «Dio resta in silenzio» e «L’Europa giunse alla sua fine».

Tanta dedizione, versatilità e ironia ma la relatività delle motivazioni e la gratuità degli impulsi paiono produrre un’accumulazione di stimoli che causano disagio e stanchezza (anche considerando le quattro ore e mezzo di spettacolo compreso l’intervallo). La riduzione dello scopo estetico a pura esaltazione del gioco comporta anche il pericolo che l’insistenza ludica provochi assuefazione e fatica. Per tanta abilità parodistica e adattativa – a stili, immagini, voci – viene meno la fiducia nell’interpretazione, svalutata in varietà e profondità espressiva. Sarà per la sovrapposizione della funzione registica a quella d’autore; sarà per l’improvvisazione che, forse d’origine surrealista, richiede controllo e coerenza particolari. Coerenza che migliora per gli altri elementi, quali la scenografia, consistente soprattutto nei rapporti corporei degli attori. I costumi, più che connotare personaggi, stagliano simulacri. Un video trasmette in diretta angolazioni diverse dell’azione. La musica genera l’effetto sonoro più adatto alla perdita dell’orientamento (quella freccia d’attenzione sensibile e intelligente che avvince gli spettatori) inducendo qualcuno a lasciare la sala prima della fine.



Fine dell'Europa
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