Arriva,
fuori concorso, un importante film sulla camorra. A firmarlo è il
quarantacinquenne napoletano Vincenzo
Marra già premiato a Venezia nella Settimana Internazionale della Critica
per Tornando a casa (2001). Il film narra la storia di Don Giuseppe (Mimmo Borrelli), ex-missionario campano
e parroco di una piccola diocesi di Roma. Dopo una crisi spirituale, egli chiede
e ottiene di essere trasferito in un paesino del napoletano. Qui sostituirà Don
Antonio (Roberto Del Gaudio),
personalità apprezzata distintasi soprattutto per la lotta contro le discariche
abusive e i roghi dei rifiuti. Questultimo istruisce il suo successore sui
compiti che un simile incarico richiede, e sui rapporti da mantenere con certi
parrocchiani. Ben presto Don Giuseppe imparerà che ciò vuol dire venire a patti
con i soprusi della criminalità organizzata, cui egli si opporrà nel modo più
risoluto. I risultati, però, non saranno quelli sperati e leroismo del prete
non sortirà altro effetto che lassassinio di un giovane spacciatore.
Una scena del film
In
questa edizione del Festival Napoli è stata rappresentata secondo diversi punti
di vista. Da quello spettacolarizzato secondo lo stile della serie Gomorra, presentata al Lido con uno spin-off di quindici minuti in realtà
virtuale, alla Napoli neomelodica de Il
Cratere di Silvia Luzi e Luca Bellino, a quella dark e futuristica del film danimazione
Gatta Cenerentola di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino
Guarnieri e Dario Sansone, o
ancora al musical dei Manetti Bros, divertente
Tano Da Morire in versione
partenopea. Il
film di Marra, modesto sia per ambizioni che per budget, è significativo per lapproccio adottato dal regista. Un lavoro
imperfetto, certo, a tratti persino sciatto nella recitazione, ma narrativamente
convincente scaturito da un intento politico di rara sincerità e consapevolezza.
In questa Napoli (a differenza degli esempi sopracitati) è assente qualsiasi
velleità cinefila, a tutto beneficio del risultato finale: la camorra non è un
immaginario cinematografico cui attingere per creare un gangster movie, ma un fenomeno sociale per la creazione di un film
di denuncia; o meglio, un film di riflessione, “da cineforum” si sarebbe detto
un tempo.
Una scena del film Poca
forma, tanto contenuto: Marra sembra indirizzare la nostra attenzione sull'oggetto
della rappresentazione più che sulle modalità della stessa, e non possiamo che
raccogliere il suo invito. Nelle
vicende di Don Giuseppe, prete “straniero” incorruttibile e di sani principi, cè
tutto il dramma delle società ad alta infiltrazione di criminalità organizzata.
Una collettività che si organizza autonomamente, secondo proprie regole,
integrando le componenti più deviate al suo interno, senza tuttavia ridursi
esclusivamente a esse. In questo contesto, chiunque provi a fare pressione per
cercare di risolvere un determinato problema, come Don Giuseppe, deve
confrontarsi con tale ordine, calibrando su di esso il proprio raggio dazione.
Chiunque ambisca a una emancipazione è destinato, nel migliore dei casi, a
essere espulso dal contesto di appartenenza. Una figura come quella di Don
Antonio, seppur collusa con la camorra, a livello pragmatico si rivela quindi
più efficace rispetto alla controparte “pura” (Don Giuseppe), sul filo di
quell'eterno dualismo tra idealismo e pragmatismo che percorre da sempre il
dibattito sull'antimafia.
Una scena del film Dunque,
si può trattare con le organizzazioni criminali? Se sì, in che misura? Dove
finisce il dialogo e dove inizia la complicità? Dovremmo forse rinunciare a unazione
radicale che, rifiutando tout court la
logica dei clan, cerchi lappoggio della parte “buona” della comunità
interessata? La chiesa vuota in cui si svolge lomelia di Don Giuseppe sembra
suggerire una risposta pessimistica. Il consenso di cui godeva Don Antonio era
legato anzitutto al rifiuto del cambiamento, al mantenimento di uno status quo
(lequilibrio del titolo). Come viene
detto nel film, un prete-eroe «porta solo giornalisti e poliziotti», avendo
come unico effetto quello di dirottare il business
altrove.
Il
film di Marra non dà risposte: si limita a fotografare la realtà offrendo gli strumenti
per comprenderla. Non sarà formalmente ineccepibile, ma di fronte a una tale
sincerità di intenti si tratta di un peccato minore.
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