Girato nella tuttaltro che inedita cornice del Cile
di Pinochet e dei desaparecidos, questa coproduzione di Francia,
Germania, Paesi Bassi e Cile vede alla regia liraniano Alireza Khatami,
residente a Chicago, qui alla sua opera prima.
Il film, presentato nella sezione Orizzonti,
narra le vicende di un funzionario di un cimitero cileno (Juan Margallo)
negli anni della dittatura filo-fascista, dotato di una memoria di ferro tranne
che per i nomi. Il suo compito principale è quello di riconoscere i
cadaveri e di mostrarli ai loro cari Mentre da una città vicina dilaga la
protesta contro il regime, i miliziani entrano nella sua morgue per
nascondervi le vittime civili. Tra queste cè il corpo di una giovane sconosciuta,
di cui luomo si prende cura per darle una degna sepoltura, aiutato dallamico
becchino (Tomàs del Estal) e da una vecchia donna (Itziar Aizpuru).
Una scena del film
Los versos del olvido evoca le vicende belliche vissute
in prima persona da Khatami durante la Guerra del Golfo Se lopera è concepita
come «una riflessione sulla memoria e un omaggio poetico a tutti coloro che
combattono in nome della giustizia», non convince del tutto la scelta di
trasferire i ricordi autobiografici in un altrove temporale e geografico (il
Cile).
La distanza è la cifra stilistica del film: pochi,
essenziali dialoghi, interni claustrofobici, ambienti scarsamente illuminati,
minima espressività dei personaggi. Il dramma si consuma nel non-visto, nel
non-udito, e proprio per questo acquista una sua gravità. La protesta civile è
quasi sempre fuori campo, mentre langoscia diventa il principio ordinatore del
racconto, una sorta di sottotesto onnipresente che è forse laspetto più
riuscito dellopera.
Una scena del film
Il tentativo di coniugare
la poesia del cinema iraniano con la magia della tradizione letteraria
latinoamericana è solo in parte riuscito. Tante le citazioni, reali o presunte.
Non sappiamo, ad esempio, se Khatami abbia visto Still Life di Uberto
Pasolini (2013), cui Los versos si avvicina (si usa qui un
eufemismo). Non sappiamo nemmeno se sia stato influenzato dallironia
contemplativa ed esistenzialista di Victor Erice o di Manoel De
Oliveira, alla quale pure sembra dover molto. È probabile, questo sì, che
abbia visto lEmir Kusturica di Arizona Dream (1992), da cui
riprende il tocco surrealista del pesce volante (in questo caso, una balena).
Quel che è certo è che ha ammirato il cinema di Pablo Larraín, al punto
da voler “traslocare” nel suo immaginario, quasi per impossessarsi del discorso
lasciato in sospeso dal regista cileno con Il Club (2015) e Neruda
(2016).
Una scena del film
Non si
spiega altrimenti la scelta dellambientazione cilena per affrontare temi
universali come la morte, la giustizia, lamicizia, lomertà. Poco interessato
a ricostruire le dinamiche socio-culturali del Cile di Pinochet,
Khatami si preoccupa di riprenderne limmaginario cinematografico, quello che
Larraín in primis – ma non solo – ha contribuito a creare e a
divulgare. Khatami, e qui sta il maggiore interesse della sua operazione, sembra
usare la terra di Larraín come filtro per affrontare i suoi fantasmi e tradurli
in un linguaggio altro, che la sua cinefilia gli permette di
padroneggiare.
In fondo Los versos del olvido è un
film onesto, originale nella costruzione del racconto (si veda luso sicuro
delle ellissi o dei silenzi), che procede per sottrazione. La ricerca
dellessenzialità non disdegna incursioni nel superfluo, nella “colloquialità”
vista come unica reazione possibile alla morte. La
descrizione della banalità del male è tanto asciutta quanto spietata, e la
camera cerca nei pochi e stentorei sorrisi dei personaggi una via di uscita
dallorrore della quotidianità.
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